lunedì 14 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 30

Le labbra dell’uomo si lasciano sfuggire uno sbuffo di fumo che va a mescolarsi rapido con l’aria che respirano, imbevendola di un odore acre e penetrante.
L’ultima sigaretta di un soldato prima di scendere al fronte. Quella sigaretta che a ogni buon soldato è giusto concedere, quando non sa se tornerà vivo per l’ora di cena. L’ultima sigaretta della quiete che precede la tempesta, fumata con la consapevolezza del fatto che potrebbe essere l’ultima in assoluto di un’intera esistenza.
Anche il vizio, tutto sommato, si prende il suo spazio quando la morte incombe. In fondo, si potrebbe quasi dire che ha il diritto di farlo. Si tratta di un rito puro e semplice, compiuto con il massimo della freddezza e del distacco per allontanare il più a lungo possibile il momento dello scontro. Quasi che il fumo che esce dalla sigaretta, annebbiando la vista, possa nascondere il campo di battaglia ancora pulito. Un campo di battaglia che, si sa, prima di sera diventerà una distesa di sangue e resti umani.
È quasi l’alba, e i soldati fumano la loro ultima sigaretta. Gli unici a non farlo in tutto il campo sono probabilmente Tom Davis e il comandante Smith. Non si sentono fuori posto per questo. Niente affatto. Non avvertono il peso della morte sulle proprie spalle, e non percepiscono il bisogno di dire addio alla vita con quel piccolo gesto d’umanità palpitante proprio di un corpo ancora caldo.
L’alba si avvicina, e la mattinata si prospetta nuvolosa. Quasi sicuramente pioverà. Ma sarà una pioggerellina leggera, sottile, che picchietterà debolmente sui tetti di Eglon e sugli elmetti dei soldati. I soldati in marcia, quella distesa di uomini che fumano la loro ultima sigaretta in attesa di imbracciare il fucile e correre a conquistare la prima linea.
La battaglia sarà sanguinosa. Finalmente, però, il morale degli uomini sembra essersi risollevato. D’altro canto, sono tutti soldati: sono lì per combattere, non per passare le giornate a fumare e giocare a carte in un accampamento poco lontano da casa. L’assedio è terminato. Le alte sfere hanno dato l’okay: adesso è possibile attaccare. Anzi, meglio ancora: adesso bisogna attaccare!
È il momento buono, non si può sprecare un’occasione così propizia. Aprire una breccia nelle barricate di Eglon e penetrare in città rappresenta la priorità assoluta della giornata. Poi il conflitto si sposterà nelle strade, lungo i quartieri, dentro i palazzi e le case. La parte più difficile sarà evitare di coinvolgere i civili, ma lo stesso Presidente ha ammesso che il costo di vite umane già pagato è fin troppo alto per sopportare ancora. È necessario agire, ora, anche con il rischio di sacrificarne pochi per il bene di molti.
Il discorso tenuto dal Segretario della Difesa pochi minuti prima, via radio, è stato ascoltato con trasporto dalle truppe. Le parole chiave sono state brevi e concise: proteggere i civili, eliminare i ribelli, riprendere la città. L’obiettivo è uno e uno soltanto, dall’inizio alla fine delle operazioni militari: liberare Eglon dalla presenza dei rivoluzionari, per assicurare pace e sicurezza rinnovate a una popolazione che ha dovuto subire fin troppe atrocità.
«Soldati» parla finalmente il comandante Smith, vedendo che quasi tutte le sigarette sono ormai state esaurite. Gli uomini si radunano rapidamente attorno al loro superiore e si pongono in ascolto, muti e tesi. «Soldati. È tempo di combattere. Ci è stato ordinato direttamente dal Presidente degli Stati Uniti di riprenderci questa città americana in suolo americano, una città in cui vivono i nostri fratelli e le nostre sorelle, nostri connazionali che hanno piena fiducia in noi. Oggi dobbiamo essere baluardo della loro salvezza, realizzazione della loro speranza, vessillo della loro libertà! Siete soldati dell’Esercito degli Stati Uniti d’America: non dimenticatelo mai, soprattutto quando vi troverete a dover lottare lungo quelle strade per garantire la sopravvivenza vostra o dei vostri concittadini. Siate uomini d’onore, uomini di coraggio. Siate le stelle e le strisce sulla bandiera della libertà! E se darete il massimo di voi stessi, questa notte ci addormenteremo sereni tra le case di Eglon!»

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 30
ASSALTO AL PONTE

Quella notte David Goldbert non riusciva assolutamente a prendere sonno. Ci aveva già provato in tutte le maniere, ma ancora niente. Forse perché quella brandina all’interno del vecchio ufficio di papà era un po’ scomoda, forse perché le stesse mura del supermercato dei suoi genitori evocavano in lui troppi ricordi ancora dolorosi, ferite che erano troppo fresche per avere anche solo iniziato a rimarginarsi.
Il supermercato aveva riaperto i battenti, e sembrava davvero un miracolo. La gente accorreva in massa a prendere da mangiare, e in cambio pagava con l’unica moneta che nella città di Eglon avesse ancora un qualche valore: informazioni. Informazioni richieste dai ribelli che avevano riempito i suoi scaffali di generi alimentari di ogni tipo. Informazioni qualunque, anche apparentemente di poco conto, che venivano scambiate con una scatoletta di tonno o una confezione d’acqua minerale. Per esempio, chi aveva cercato di contattare chi per farsi dare una mano a nascondere della benzina, chi vendeva sigarette nei vicoli durante la notte, chi si era rifugiato in casa d’altri o, in alcuni casi, persino chi si era rifiutato di aprire la porta a un vicino.
I rivoluzionari raccoglievano sospetti e denunce, ascoltavano e registravano su un foglietto di carta. Si davano il turno ogni due ore e stavano accanto alla cassa mentre David e Gabriella assistevano i clienti e riempivano gli scaffali sempre vuoti. C’era parecchio da fare, a ogni ora, e il magazzino si liberava molto in fretta. Ma i ribelli avevano altro cibo nascosto, e ogni tanto qualche furgoncino arrivava e scaricava in silenzio nuove pile di scatoloni sigillati.
Gabriella in quei giorni era sempre con lui, a dargli una mano. Non aveva fatto menzione della scomparsa dei suoi genitori, e di questo le era grato. Gli aveva anche offerto di andare a dormire da lei, spiegando che sua madre sarebbe stata d’accordo, ma lui le aveva detto che preferiva rimanere nel supermercato. Era il suo ultimo legame rimasto con il passato, e gli occorreva ancora un po’ di tempo prima di lasciarsi alle spalle tutto quanto.
Ad ogni modo, i suoi genitori sarebbero stati orgogliosi di lui. Questo almeno poteva ammetterlo, anche con se stesso. Con l’aiuto dei ribelli era riuscito a rimettere in piedi l’attività quando sembrava che il negozio fosse destinato a chiudere per sempre. Le informazioni valevano davvero molto, e Maschera Bianca e Rossa, il ribelle suo amico che lo aveva sostenuto durante tutta l’operazione e che ancora adesso custodiva e proteggeva il suo supermercato dall’esterno, gli aveva detto che nei prossimi giorni si sarebbe arrangiato lui ad annotare le notizie scambiate con il cibo. In questo modo avrebbe avuto il monopolio di un grossissimo flusso di informazioni, che lo avrebbero ricompensato del lavoro svolto in supermercato. Collaborando con i rivoluzionari non aveva che da guadagnare, e anche su questo punto Gabriella era assolutamente d’accordo con lui.
Dopo essersi rigirato tra le coperte per l’ennesima volta decise di alzarsi in piedi e di uscire a prendere una boccata d’aria. Abbandonò il vecchio ufficio di papà, ricettacolo di una popolazione di ricordi legati alla sua infanzia, e aprì la porta del negozio, raggiungendo la sedia che aveva lasciato sul marciapiede accanto all’ingresso e prendendovi posto.
La città di Eglon non era mai stata più buia di così. Niente lampioni, niente luci sulle verande, niente finestre illuminate. Nemmeno la luna o le stelle, perché erano state nascoste ancora una volta dalle nuvole. Era tutto buio e silenzioso, e a David piaceva così. In questo modo, se non altro, era facile pensare e parlare un po’ con se stessi.
Sapeva che il suo amico dalla maschera bianca e rossa doveva trovarsi lì intorno da qualche parte. Era sempre lui che sorvegliava quella strada deserta, e qualche volta, la sera, stavano fuori a chiacchierare anche fino a tardi. Di sogni, di speranze, persino di letteratura. Non avevano mai parlato della Rivoluzione, ma sapeva che ormai era soltanto questione di tempo prima che Maschera Bianca e Rossa si decidesse a tirare fuori l’argomento. La sua sedia, adesso, era vuota accanto a quella sulla quale si era accomodato David.
Improvvisamente, uno scalpiccio soffuso invase il silenzio della notte. Proveniva da destra, ne era sicuro. Ma non riusciva a scorgere nulla. Si sporse sulla sedia, controllando l’ingresso del supermercato. La strada sembrava ancora desolata, ma era difficile dirlo con certezza. Troppa oscurità.
Alcune ombre, finalmente, si lasciarono distinguere nelle tenebre a pochi metri di distanza. Correvano basse, leggere, come soldati fantasma a caccia di prede notturne. Scivolavano nell’aria simili a gusci di noce su una pozzanghera di olio d’oliva.
David si alzò lentamente e cercò di avvicinarsi per vederle meglio. Ne contò sette, ma ancora il buio era troppo fitto per permettergli di fidarsi completamente della propria valutazione. Erano un pugno di ombre che sgattaiolavano furtive nel cuore della notte, correndo radenti alle pareti dei palazzi e imbracciando grossi fucili dai profili inconfondibili.
E la parte peggiore, in tutto questo, era che non parevano indossare alcuna maschera.

Quando il Commando Alfa raggiunse il margine orientale della città era quasi l’alba. Eglon sonnecchiava ancora, ma molte persone erano già sveglie e ascoltavano il silenzioso fruscio della notte che strisciava via, lontano, verso terre sconosciute e inesplorate che loro non avrebbero mai raggiunto nel corso di un’intera esistenza. Molte persone erano sveglie, sì, e si giravano e rigiravano sul letto in attesa dei primi raggi di sole della mattinata. Quando in realtà, fuori, le nuvole ricoprivano ogni centimetro di cielo libero e iniziavano a far cadere sulle abitazioni qualche isolata goccia di pioggia.
Ben presto, il silenzio fu spodestato da un ticchettio sommesso e impalpabile, che a poco a poco crebbe di intensità fino a raggiungere un ritmo rapido e costante. Una pioggia leggera, lanuginosa, si depositava sulle strade e sui marciapiedi, sui tetti degli edifici e sui profili immobili dei carri armati, picchiettando debolmente e producendo un sussurro piacevole.
L’aria fu invasa dal profumo della pioggia e il silenzio della notte fu sostituito da quello dell’alba, altrettanto denso, ma meno spaventoso.
Gli uomini del Commando Alfa presero posizione, allineandosi dietro la parete di un grosso edificio, e Zero Uno, il comandante, mandò in avanscoperta Zero Due affinché riportasse un abbozzo sommario di quello che doveva essere il quadro della situazione.
Zero Due tornò dopo dieci minuti, quando la pioggerellina sottile aveva già incominciato a farsi regolare e insistente. «Siamo di fianco al fiume. Il ponte si trova da quella parte» spiegò, indicando una direzione che proseguiva al di là della parete del palazzo. «L’area è sorvegliata da alcuni uomini appostati dietro le barricate. Ne ho contati sei, ma c’è anche un carro armato che forse contiene altre unità. Il ponte è stato riempito di carcasse di automobili accatastate, sicché risulta difficile da liberare. Abbiamo una torre di vedetta a nord, circa trecento metri di distanza, e una a sud, poco meno di cinquanta metri.»
«Perfetto. Prendiamo la torretta più a sud e ci stabiliamo lì, in attesa delle truppe. Zero Sette, sei pronto per la tua missione?»
«Assolutamente sì, signore. Diamo questo colpo di grazia e leviamoci di torno» confermò il soldato speciale, con decisione.
«Bene. Zero Cinque, trova una postazione sicura ed elimina i due bersagli che occupano la torretta. Zero Sei, fornisci a Zero Cinque il fuoco di copertura necessario» concluse Zero Uno, osservando la zona con circospezione mentre attendeva che i due subalterni eseguissero i suoi comandi.
Zero Cinque ritornò al riparo dietro la parete dell’edificio due minuti dopo, annuendo soddisfatto. «Ora la torre di vedetta è pulita.»
«Andiamo» ordinò Zero Uno, e il gruppo partì veloce in direzione dell’avamposto appena liberato. L’operazione era delicata e andava portata a termine prima che l’Esercito arrivasse. Il ponte di Eglon, che collegava il margine orientale del centro abitato alla campagna che si stendeva al di là del fiume Arkansas, era la loro unica speranza di recuperare la città.
«Zero Due, Zero Tre e Zero Quattro: sapete che cosa dovete fare. Raggiungete la barricata senza farvi notare e posizionate le cariche. Speriamo che il comandante Smith abbia avuto qualche idea per liberare il ponte dalle carcasse di quelle automobili, altrimenti la missione colerà a picco.»
I tre soldati appena nominati si separarono dal gruppo e scivolarono piano dall’altra parte della strada, guadagnando le barriere dietro il carro armato. Nel frattempo, gli altri quattro raggiunsero la torre di vedetta a sud del ponte e la occuparono, salendo di soppiatto e prendendo posizione sui cadaveri dei due ribelli ammazzati.

«Ehi! Ehi, abbiamo un problema!» berciò il rivoluzionario appena entrato nella Eglon Tower, scandendo le parole tra un respiro affannato e il successivo.
Maschera Blu si voltò lentamente, guardando il nuovo arrivato con un pizzico di disappunto. «Che c’è? Qui siamo impegnati a organizzare la distribuzione dei carburanti, non abbiamo tempo di occuparci di altre faccende.»
«Signore, abbiamo un problema lungo i confini!» ribatté l’altro, deciso a non farsi congedare con una semplice alzata di spalle. La situazione da gestire era grave, e c’era bisogno che qualcuno prendesse il controllo alla svelta e risolvesse la questione.
«Che genere di problema? Armi inceppate? Turni di guardia non rispettati?» s’informò Maschera Blu, tornando a girarsi dall’altra parte con aria di sufficienza.
«Tutt’altro, signore: l’Esercito sta occupando il ponte!»
Maschera Blu sollevò la testa di scatto e rimase fermo per un tempo che parve eterno, quasi che cercasse di tradurre e interpretare le parole del ribelle che ancora ansimava alle sue spalle. Quando si volse, i suoi muscoli erano contratti e la sua mano stringeva convulsamente il calcio della pistola ancora infilata nella fondina.
«Finalmente!» esclamò infine Maschera Blu, esplodendo l’esclamazione con un forte accento d’entusiasmo. «Radunate i ribelli e portateli nel quartiere orientale della città, davanti all’imboccatura del ponte di Eglon! Voglio tutte le unità armate e schierate entro venti minuti. Ricordate loro le procedure di difesa e le esercitazioni. Raggruppate dodici carri armati e fateli allineare dietro le barricate che bloccano il ponte! Forza, coraggio! Si combatte, finalmente!»

Il comandante Smith fissava assorto l’interminabile barricata che cingeva la città di Eglon oltre il corso del fiume Arkansas. Sembrava estendersi all’infinito, vista da quel punto di osservazione. Al di sopra di essa si stagliavano contro il cielo nuvoloso i palazzi più alti della città, ma da lì era impossibile scorgere la strada, le abitazioni più basse, gli uomini schierati in attesa dell’attacco.
Ormai i ribelli dovevano essersi resi conto della presenza dell’Esercito. Nessuno aveva ancora sparato un colpo, forse perché i mezzi corazzati che recavano lo stemma dell’armata americana avevano messo in soggezione gli avversari. Al di fuori della barricata, presso la riva opposta del fiume, erano stati posizionati otto carri armati con i cannoni puntati contro la barriera. Sparare, a quel punto, significava essere spazzati via in un solo istante dai colpi di quegli otto cannoni. Non rimaneva altro da fare se non accettare lo scontro e ingaggiare la battaglia, che si sarebbe consumata sul terreno stretto e accidentato offerto dal ponte.
Gli uomini di Smith avevano già aperto un varco tra le carcasse delle auto ammassate sul passaggio. Ora un canale abbastanza largo da permettere ad almeno cinque soldati di procedere uno di fianco all’altro aspettava soltanto l’ordine dell’attacco.
Ma il Commando Alfa doveva ancora lanciare il segnale dell’okay, e il comandante Smith era obbligato ad attenderlo prima di dare il via alle danze. Se il Commando non fosse stato pronto, probabilmente i suoi soldati, per quanto il loro numero fosse tremendamente cospicuo, sarebbero stati sbaragliati nell’imbottigliamento del ponte, morendo sotto la barricata prima ancora di arrivare abbastanza vicini da colpirla.
Bisognava attendere che Zero Uno desse il via, prima di sferrare l’assalto al ponte. E per adesso il comandante Smith non intravedeva nulla sulle due torri di vedetta più vicine, il che poteva significare solamente due cose: o gli uomini del Commando Alfa non erano ancora riusciti a portare a termine l’operazione, oppure avevano miseramente fallito. Nel secondo caso, naturalmente, Smith avrebbe dovuto ritirare le truppe, rientrare al campo e contattare immediatamente il Segretario della Difesa per interrogarlo sulla prossima mossa.
Quasi che il destino volesse sconfessare i timori del comandante Smith, dalla torretta di controllo situata a sud lungo la linea delle barriere provenne un flebile luccichio che si ripeté tre volte, come pattuito assieme al Segretario della Difesa prima che il Commando penetrasse nella città.
Era il via libera lanciato da Zero Uno, e questo voleva dire che la missione era andata a buon fine. Finalmente, dopo l’interminabile attesa, l’ansia dell’attacco e la paura del fallimento, ecco giungere un’ottima notizia.
Il comandante Smith si avvicinò a uno dei subalterni e gli sussurrò nell’orecchio: «Fate circolare l’ordine di prepararsi: la barricata sta per cedere. Appena la breccia sarà stata aperta dal Commando Alfa, attraversiamo il ponte e irrompiamo in massa a Eglon.»
L’ufficiale annuì e passò l’informazione agli uomini che gli stavano attorno. Nel giro di qualche minuto gli ordini avevano raggiunto i margini dello schieramento.
«Mi raccomando,» soggiunse il comandante Smith mentre ascoltava il ticchettio della pioggia sugli elmetti dei suoi soldati, «la prima linea dovrà prestare la massima attenzione: durante l’attraversamento del ponte saremo imbottigliati, ed è molto probabile che i ribelli ci aspettino dall’altra parte con tutte le loro truppe. Dovendo passare cinque alla volta saremo bersagli facili: bisogna lasciare immediatamente spazio a chi segue e coprirne l’avanzata, fino a portare dall’altra parte un ingente numero di uomini prima di sferrare l’assalto vero e proprio.»
Era ormai ora di incominciare. L’assalto al ponte sarebbe stato il primo passo della liberazione di Eglon: dopo aver sbaragliato le linee rivoluzionarie poste al di là del passaggio, l’Esercito avrebbe dovuto rincorrere i ribelli per tutte le strade della città, stanarli ed eliminarli un po’ alla volta evitando di coinvolgere i civili. Sarebbero stati giorni di fuoco, quelli che dovevano venire, ma alla fine la giustizia avrebbe trionfato. Come sempre, d’altro canto.

Maschera Blu salì sulla cima di uno dei carri armati allineati lungo la strada che correva parallela alla barricata e osservò l’orizzonte. Da lì non si potevano scorgere i soldati schierati oltre il letto del fiume, ma non era difficile farsi un’idea di quanti dovessero essere. Mille uomini, se erano fortunati. Forse duemila, ma non si poteva dire con certezza. In ogni caso, tanti.
Sghignazzò tra sé e sé e quando ebbe finito individuò tre rapidi luccichii provenire dalla torre di vedetta a sud. Sorrise dietro la maschera e scese dal carro armato, chiamando a sé uno dei suoi.
«Voglio che circondiate la torretta di sorveglianza a sud del ponte. Prendi pure una dozzina di uomini con te e blocca tutte le vie di scampo. Lassù ci sono degli infiltrati dell’Esercito americano. Vanno catturati vivi, siamo intesi? Anche a costo di perdere un paio dei nostri. Dobbiamo far vedere alla gente che la punizione cala implacabile su coloro che si oppongono alla Rivoluzione.»
Il ribelle gli indirizzò un cenno affermativo del capo e partì di corsa, raggruppando dodici uomini mascherati e facendo loro segno di seguirlo.
I carri armati erano pronti a far fuoco, i Soldati della Rivoluzione imbracciavano ciascuno la propria arma. Erano tutti disposti a morire per gli ideali che stavano portando avanti. Tutti disposti a morire pur di preservare l’importante compito assegnato a Eglon. La Fase Due era vicina, e i rinforzi stavano arrivando. Bisognava soltanto fermare l’avanzata dell’Esercito prima che i soldati americani si sognassero di mettere piede in città, e tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Maschera Blu afferrò il megafono che uno dei suoi uomini gli stava porgendo e se lo portò alla bocca, gridando con la sua voce priva di accenti o inflessioni identificabili: «Soldati della Rivoluzione! Oggi combatteremo per i nostri ideali e ridurremo in ginocchio quei burattini che si stanno accalcando ai piedi delle nostre barricate di legno! Loro vengono con i bazooka, con le granate, con le mitragliatrici di ultima generazione, ma noi li contrastiamo con le loro stesse armi e con un asso nella manica: la nostra voglia di far sapere al mondo che a Eglon si sta costruendo qualcosa di incredibile e di unico. Perciò non permettiamo a quei cani di entrare in città ad arraffare il nostro osso: spariamo a vista e gettiamo i loro cadaveri nelle acque del fiume Arkansas!»

Il comandante Smith sollevò il braccio destro per tre volte. Era il segnale convenuto con il Commando Alfa per dare il via all’assalto, e pochi secondi più tardi una violenta esplosione fasciò il silenzio fuori dalle porte della città e deviò la pioggia contro i visi dei soldati in prima linea, i quali rimasero impassibili.
Una porzione di barricata sull’altra riva, in corrispondenza del tratto in cui il ponte sul fiume si collegava alla strada cittadina, si squarciò. Era merito delle cariche posizionate dal Commando Alfa prima di dare il via all’attacco, e adesso un grosso varco nella barriera difensiva di Eglon ne spezzava la continuità.
Il comandante Smith poté finalmente gettare lo sguardo al di là di quelle barricate. Dopo settimane intere di trepidante attesa, adesso riusciva infine a scorgere l’asfalto di Eglon, i muri delle sue case, le maschere multicolori dei ribelli e i loro carri armati in posizione, le armi puntate sui soldati dell’Esercito degli Stati Uniti che già sciamavano sul ponte e lo attraversavano di corsa, spianando le mitragliatrici a tracolla e preparandosi ad aprire il fuoco.

«Non sparate. Non ancora. Tenete salda la posizione e prendete la mira, ma non premete i grilletti. Non muovetevi di un passo» ordinò Maschera Blu, imperturbabile.
I ribelli erano disposti in un ampio semicerchio attorno al punto in cui la barricata era stata abbattuta. Vedeva distintamente i soldati dell’Esercito statunitense avanzare di corsa verso la breccia, con le mitragliatrici in mano e i giubbotti antiproiettile che ondeggiavano assecondando i movimenti dei corpi tesi. Non era necessario sparare. Non ancora. C’era tempo, prima che i militari americani varcassero la linea della barricata distrutta.
C’era ancora tempo, prima che il comandante Smith si rendesse conto di aver fatto una cazzata.

«Zero Quattro, com’è la situazione?» s’informò Zero Uno, mostrandosi compiaciuto.
«I soldati hanno occupato il ponte, le prime linee iniziano a raggiungere la breccia sulla barricata. Ma i ribelli non attaccano. Non sembrano avere intenzione di imbottigliarli… Pare quasi che vogliano soltanto contenerli…» osservò Zero Quattro, e in quel momento Zero Due bisbigliò un’imprecazione e si accucciò, in preda al terrore.
«Oh Cristo! Sono qui sotto! Hanno bloccato le scale della torre di vedetta!»
Zero Uno buttò un’occhiata verso il basso e registrò la presenza di una dozzina di maschere con i fucili puntati sulla sommità della torretta. Li avevano già sotto tiro. Erano perduti.

Il soldato Tom Davis osservava i suoi compagni correre sul ponte, in direzione della breccia aperta dal Commando Alfa nella linea ininterrotta della barricata di Eglon. Lui era rimasto nelle retrovie, perché ancora non si era ripreso del tutto dallo choc della missione fallita alla quale erano sopravvissuti soltanto lui e il vicecomandante Gray.
La giornata sarebbe stata coronata da una splendida vittoria. Dopodiché, molto probabilmente quella brutta storia sarebbe finita. Tutta la vicenda di Eglon, per quanto orribile apparisse adesso, sarebbe passata in secondo piano piuttosto in fretta. Al suo posto sarebbero subentrate nuovamente la crisi economica, la disoccupazione e l’inflazione come notizie principali, e la Rivoluzione di Eglon sarebbe stata relegata a un misero e infelice paragrafo in qualche futuro libro di storia. Quel giorno stesso la rivoluzione terroristica sarebbe stata arginata definitivamente.
Forte di questa convinzione, Tom Davis vide le prime linee di soldati statunitensi attraversare la breccia dall’altra parte del ponte e creare un gruppo solido e compatto, schierandosi in una formazione difensiva che presto si sarebbe tramutata in un’offensiva brillante.
Ma i ribelli ancora non sparavano, e questo gli fece avvertire un brivido lungo tutta la schiena.
Perché i nemici non premevano i grilletti? Perché quelle maschere stavano immobili, impassibili, con le loro espressioni grottesche fissate sul manipolo di militari sempre più numeroso? Perché non facevano niente per fermarli, dannazione? Per quale assurdo motivo non si decidevano a imbottigliarli sul ponte?
La risposta arrivò quasi subito, e fu così cupa e dirompente da far credere a Tom Davis, per la durata di un minuto, che fosse solo un orribile incubo.
Poi, dopo la tremenda esplosione, il fumo nero iniziò a diradarsi e rivelò l’impensabile orrore scatenato dalla detonazione. Il ponte, da una riva all’altra del fiume, non esisteva più. Era saltato in aria, si era frantumato ed era crollato nell’acqua, trascinandosi dietro le carcasse delle auto e i militari che lo percorrevano con le armi imbracciate. Al di là di quel placido serpente azzurro chiamato Arkansas, i soldati che avevano già attraversato il ponte si ritrovarono tagliati fuori.
E il capo dei ribelli, attraverso un megafono, urlò un solo ordine: «Fuoco!»

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