lunedì 17 agosto 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 26

«Dove vai, vecchio?» gli chiese Terry McCallister vedendolo avvicinarsi alla porta. Terry se ne stava seduto in cucina, vicino alla finestra che dava sul giardino, a fumare in silenzio. Sonny non aveva idea di dove si fosse procurato quelle sigarette, ma di sicuro ne doveva avere parecchie, perché se ne faceva fuori almeno sei al giorno. Non sapeva molto sul conto del padrone di casa, realizzò in quel momento, mentre stava per oltrepassare la soglia e uscire. Ma, d’altro canto, poco importava. Se non fosse stato per Terry, il buon vecchio Sonny sarebbe morto già da un pezzo.
«Vado a trovare un amico» rispose Sonny, come se si trattasse di una faccenda banale. Come se andare a trovare un amico, in una città ridotta nelle condizioni in cui versava Eglon, fosse un’azione ancora normale.
«Cerca di tornare prima che scatti il coprifuoco.»
«Quale coprifuoco?» sghignazzò Sonny, e uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle.
Chissà come se la cava quel buono a nulla di Terence, pensò Sonny mentre attraversava il cortile della casa di Terry e si allontanava imboccando il marciapiede. Terence Duke era forse il figlio di buona donna più coriaceo e testardo che Sonny avesse mai conosciuto. Aveva fatto il poliziotto per oltre trent’anni, in servizio permanente a Eglon, e conosceva la città probabilmente meglio di chiunque altro, sindaco, sceriffo o contrabbandiere che fosse. Se c’era qualcuno che sapeva come uscire da quello schifo di situazione, quell’uomo era sicuramente Terence Duke. Ed era proprio a lui che Sonny intendeva rivolgersi, adesso, per chiedere consiglio su come muoversi.
Aveva trascorso fin troppi giorni nell’inattività, chiuso nella casa di Terry a respirare il fumo micidiale esalato dalle sue sigarette. Era ora di darsi un po’ da fare, di svegliarsi fuori. Si sentiva stanco, sconfitto e sfiduciato, e queste sensazioni tutte insieme non gli piacevano per niente. Aveva bisogno di riscattarsi, e l’unica cosa da fare era mettersi al lavoro per porre fine a quel disastro.
Che cosa potrà mai fare un vecchio contro tutta quella gente incazzata? Poco o niente, si rispose automaticamente. Ma quando avesse recuperato anche Terence allora sarebbero stati in due vecchi, e forse avrebbero potuto fare qualcosina di più.
Con questi propositi in testa, Sonny Dangerwood evitò accuratamente di passare per l’angolo della strada sorvegliato da un ribelle con un mitra imbracciato e deviò verso un’altra direzione, raggiungendo qualche minuto più tardi la facciata dell’abitazione di Terence Duke.
La porta era aperta, e il dettaglio fece saltare subito il cuore in gola a Sonny. Non era normale che la porta di Terence fosse aperta, perché l’ex poliziotto era sempre stato un maniaco della sicurezza e non avrebbe mai
(e sottolineo mai)
lasciato aperta la porta di casa, nemmeno se si fosse piazzato appena al di là dell’uscio con un fucile in mano.
Si avvicinò con circospezione all’entrata, guardandosi attorno per controllare che nessuno lo spiasse. Lanciò un’occhiata alla cucina dalla finestra, ma non intravide nulla di anomalo. Si diresse verso la soglia d’ingresso, preparandosi a scappare.
«Terence, sei in casa?» domandò, a voce abbastanza alta. Attese una risposta che non arrivò. Quando fu stufo di aspettare, spinse leggermente la porta per entrare e si bloccò sul gradino d’accesso, sconvolto dall’immagine del vecchio amico riverso sulla moquette lorda di sangue con il petto bucherellato.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 26
NELLE CASE FANTASMA

Fuori era finalmente sbucato qualche timido raggio di sole e piano piano Melanie Winget sentiva di iniziare a riprendersi dall’incidente. Aveva talmente tante bende e fasciature da non riuscire nemmeno a contarle, ma non era ancora stata capace di capire che cosa si fosse rotto e che cosa invece no. Il dolore che avvertiva, di giorno come di notte, era generale. L’unica cosa di cui si sentiva abbastanza certa era che non riusciva a muovere le gambe, e questo contribuiva a demoralizzarla.
Ma adesso era venuto fuori il sole, no? Significava che un po’ di speranza era rimasta, dopotutto. Per lei come per le sue gambe. Speranza per tutta la città, che da ciò che le avevano raccontato stava vivendo una feroce crisi. Il suo dottore, quello con la maschera, le aveva spiegato che cosa stava succedendo. Le aveva narrato della rivoluzione e dei morti, della taglia sulle teste dei poliziotti che si erano opposti al processo di cambiamento, dell’Esercito appostato fuori da Eglon. Quando era saltata la corrente, un paio di giorni prima, le aveva detto di non preoccuparsi, perché l’abitazione era munita di un generatore autonomo che funzionava a gasolio. Meno di un’ora più tardi l’elettricità era tornata, e il dottore era rientrato in camera con un tascabile e un’abatjour per lei, di modo che si distraesse un po’ leggendo.
Gli antidolorifici la aiutavano a mantenere il dolore al di sotto del limite di sopportazione, ma stava lo stesso male. Aveva chiesto di averne un po’ di più, una sera in cui si sentiva particolarmente stanca, e il medico le aveva pazientemente risposto che non era possibile, perché le scorte di medicinali calavano a vista d’occhio e bisognava aspettare che qualcuno riuscisse a fare rifornimento, prima di poterne usufruire senza doverle razionare. Melanie aveva accettato con un cenno del capo e aveva ribattuto che le andava bene anche un sonnifero. Il dottore aveva annuito con un mezzo sorriso, e qualche minuto dopo Melanie navigava già sulle placide acque del lago dei sogni.
Adesso, dopo un risveglio difficile e sfocato, finalmente si intravedeva qualche barbaglio di sole. La stanza della villetta nella quale l’avevano messa, le aveva illustrato il dottore, si trovava nella periferia sud di Eglon. Una zona tranquilla, tutto sommato, dove gli scontri non avevano ancora assunto l’intensità che si poteva registrare in centro. Abbastanza lontana da Main Street da far sentire gli spari come attutiti da un grosso materasso.
Melanie trascorreva le giornate a leggere e a dormire, svegliandosi ogni tanto per mangiare qualche zuppa calda e bere un sorso d’acqua. Non poteva muoversi, non poteva vedere la città. Poteva soltanto immaginare quello che stava succedendo, e ricostruire le dinamiche della rivoluzione attraverso i racconti del dottore. Certo, però, che davvero non capiva perché i poliziotti se la fossero presa tanto con i ribelli. Dopotutto, con lei erano stati davvero gentili. Dopo che l’Esercito aveva abbattuto l’aereo di linea sul quale si trovava, come le aveva narrato il dottore, erano stati loro a soccorrerla e a salvarle la vita. Perché allora la polizia di Eglon non li appoggiava?

Peter Norton, nome che non era naturalmente il suo, rientrò tardi nell’appartamento quella sera. Era stanco morto perché aveva lavorato tutto il giorno. In poche ore avevano dovuto scaricare tutti i vagoni del treno
(escluso il quattro)
e ammassare l’intero contenuto nei cassoni dei furgoncini blindati, che in un viavai senza sosta avevano smistato la merce in maniera svelta ed efficace.
Adesso, tutto quello che desiderava era farsi una doccia in santa pace e dimenticarsi del resto. Ceste le taniche di carburante, ceste i generatori, ceste quell’accidenti di treno. Lo avevano spostato a fare i lavori pesanti soltanto per colpa di quello stronzo di Jeremy Barton, poliziotto ancora in libertà che gli era sfuggito da sotto il naso prima che avesse tempo di premere il grilletto. Ma gliel’avrebbe fatta vedere lui, se lo avesse beccato di nuovo. Oh sì, sissignore, gliel’avrebbe fatta vedere eccome. Altro che premere il grilletto: lo avrebbe torturato finché non fosse morto dal dolore, quel bastardo.
Si levò di dosso il grembiule che aveva indossato nella stazione ferroviaria per il trasferimento delle taniche di gasolio e lo buttò nel cesto della biancheria sporca. Se ne sarebbero occupate le donne. Sicuramente avrebbero saputo come far sparire quella macchia d’olio che era schizzata dal tubetto misterioso che qualche deficiente aveva lasciato sul retro di uno dei furgoncini. Ah, come avrebbero fatto senza le donne? Erano loro che tenevano in piedi la baracca, alla fine dei conti. Gli uomini uscivano a combattere con le maschere sul volto e le donne rimanevano in casa a lavare il bucato, preparare da mangiare e lucidare le armi. Come ai bei vecchi tempi, pensò “Peter” spostandosi in soggiorno.
Si passò una mano sul viso sudato e improvvisamente i suoi sensi furono attratti da un rumore inaspettato, un rumore che non avrebbe dovuto esserci e che invece percepiva distintamente.
A passi felpati, “Peter Norton” si avvicinò alla porta chiusa che dava sulla camera da letto di uno dei tanti ribelli che vivevano in quella stessa abitazione e si soffermò a pochi centimetri dalla serratura, tendendo l’orecchio per ascoltare. Non c’era dubbio: quelli erano gemiti. Erano i respiri concitati di una donna che ansimava, e “Peter” capì immediatamente di chi doveva trattarsi.
Appoggiò la mano sulla porta e spinse leggermente, aprendosi uno spiraglio.

Quel pomeriggio, alcune ore prima che “Peter Norton” rientrasse in casa, Gerald McGale scese le scale con estrema calma e attraversò con altrettanta tranquillità il breve corridoio che separava la gradinata dalla zona che il capo aveva definito delle prigioni. Posò l’indice sul minuscolo ovale di vetro posto a lato della porta scorrevole e questa si spalancò con uno sbuffo leggero, permettendogli di passare.
Ricordava ancora il giorno in cui lui e Maschera Blu avevano interrogato il pilota di Black Hawk catturato nella notte del bombardamento. Lo ricordava come se fosse successo ieri, quando in realtà era trascorsa quasi un’intera settimana. Il prigioniero, sul punto di parlare, era morto in maniera inspiegabile. Non c’erano medici capaci di fare un’autopsia, tra i rivoluzionari, così avevano dovuto gettare il cadavere in una fossa e ricoprirlo senza sapere che cosa gli fosse accaduto.
Maschera Blu era di cattivo umore, ultimamente, e non aveva più avuto il coraggio di domandargli che cosa ne pensasse riguardo a quel pilota prigioniero. A conti fatti, la questione era irrilevante. I loro alleati fuori dalla città avrebbero senz’altro scoperto, in un modo o nell’altro, chi erano i mandanti dell’attacco, e la vendetta sarebbe calata inesorabile. Per cui non aveva senso stare troppo a preoccuparsi.
La porta scorrevole alle sue spalle ritornò al proprio posto con un altro sbuffo leggero. Gerald riprese a camminare, stavolta più speditamente, e superò una mezza dozzina di corridoi sigillati che si snodavano da quello principale prima di raggiungere un’apertura a volta che lo fece entrare in un ampio salone scarsamente illuminato.
«Volevi parlare con me?» domandò come prima cosa, senza nemmeno aspettare che l’interlocutore si voltasse a guardarlo.
«Sì. Siediti pure» rispose l’altro, indicandogli una poltrona vuota. Gerald prese posto e si preparò ad ascoltare quel che Maschera Blu aveva da dirgli, incrociando le braccia.
«Ho bisogno di un favore» incominciò Maschera Blu dopo qualche attimo di esitazione, con quella sua voce assolutamente priva d’accento e quel suo fare autoritario. «Devi disfarti di alcuni corpi.»
«Poliziotti?»
«No, questa volta no. Sono nostri.»
Gerald scrutò attentamente la maschera inespressiva del suo interlocutore, alla ricerca di una qualche smorfia che ne tradisse la rabbia. Ma non stringeva nemmeno i pugni, il che significava che non era per niente incazzato.
«Quanti?» s’informò, giusto per avere un’idea del lavoro da sbrigare.
«Tre. Ammazzati al parco questa mattina. I Sorveglianti non hanno visto nulla, e in questo momento gli uomini di Johnson stanno interrogando un paio di civili. Sembra che sia stato notato un gruppo di nove uomini muoversi nella periferia est della città. Forse qualcuno di loro era armato.»
«Tre corpi. Dove li dovrei buttare, stavolta?»
«Dove preferisci. Basta soltanto che nessuno possa più recuperarli. Lo sai, mantenere segreta la loro identità è di fondamentale importanza» gli ricordò Maschera Blu, come se Gerald lo avesse dimenticato.
«D’accordo. Li faccio sparire prima di sera. Posso portarli all’inceneritore, così da cancellare definitivamente ogni loro traccia.»
«Buona idea. Va’ subito, così ci leviamo il pensiero.»
Gerald annuì e fece per alzarsi, ma Maschera Blu lo fermò con un cenno della mano.
«Stamattina è arrivato il treno» disse semplicemente, come se si trattasse di una notizia di poco conto. Gerald rimase immobile ad aspettare che andasse avanti. «Sai che cosa significa, non è vero?»
«Sì. Significa che ha mandato un messaggio.»
«Esatto. Dobbiamo prelevarlo dal fondo del vagone quattro, ma per farlo è necessario aspettare che le altre carrozze vengano scaricate. Stasera ti voglio in stazione alle undici e mezza precise. Penso di riuscire a finire di sgombrare il vagone quattro per quell’ora. Preleviamo il pacchetto e torniamo qui subito, okay?»
«Come esige la procedura» confermò Gerald, ora lievemente irrequieto.
«Molto bene. Mi raccomando. Undici e mezza, non più tardi. Prendiamo e andiamo, tutto qui» ribadì Maschera Blu, in tono categorico.
«Senz’altro. Ora, se permetti, vado a disfarmi di quei tre cadaveri» concluse Gerald, e detto questo si alzò e abbandonò la stanza.

Gerald attraversò velocemente il garage sotterraneo, passando davanti alle terrificanti sagome allineate di alcuni carri armati, e raggiunse il furgoncino blindato nel quale Maschera Blu solitamente caricava i corpi da far sparire. Aprì il portellone posteriore per controllare che i cadaveri fossero lì dentro e osservò per qualche istante in silenzio le loro maschere imperscrutabili. Richiuse, montò su nella cabina di guida, mise in moto e partì.
Fuori c’era qualche sprazzo di sole. Era a malapena tardo pomeriggio, e la situazione pareva tranquilla. Niente spari nell’aria, niente odore di bruciato. I vigili del fuoco di Eglon avevano fatto bene il loro lavoro la notte precedente, quando un pazzo che abitava a Neighbour Street aveva appiccato un incendio alla propria casa. Non erano riusciti a salvare né lui né la sua famiglia, ma se non altro avevano impedito alle fiamme di propagarsi. Il che era già tanto, visto che le forniture d’acqua e di energia elettrica erano state tagliate all’intera città.
Arrivò all’inceneritore pochi minuti più tardi, entrò nel locale col furgoncino e chiuse dietro di sé la saracinesca. L’edificio era collegato a uno dei generatori autonomi usati dai ribelli nelle loro abitazioni, dunque poté accendere due file di luci al neon e mettersi al lavoro con calma.
Sollevò il coperchio del tubo di metallo collegato all’inceneritore e tornò verso il furgoncino per scaricare i cadaveri. Li tirò giù per le braccia, tutti e tre, evitando accuratamente di far sbattere loro la testa sul pavimento impolverato. In fin dei conti, erano stati anche loro persone e meritavano dignità e rispetto alla pari dei vivi.
Erano Soldati della Rivoluzione, e sarebbero stati cancellati da quell’inceneritore. Niente statue per loro, niente fotografie sui libri di storia. Solo l’inceneritore. Era questo il destino che li attendeva? Gerald spazzò via dalla propria mente il lugubre interrogativo e si affrettò a trascinare i corpi verso il tubo collegato all’inceneritore. Alzò il primo e lo adagiò sul bordo. Aveva la maschera verde acqua, piena di finte alghe disegnate. Gliela tolse e la fece cadere nella voragine sottostante. Percorse con lo sguardo il viso nudo del ribelle, un ragazzo di una trentina d’anni con i tratti ispanici e un accenno di barba ispida. Lo sollevò dalle caviglie e lo lasciò precipitare nel canale, sentendolo atterrare dopo qualche istante su un anonimo mucchio di rifiuti.
Sapeva che non avrebbe dovuto guardare sotto le loro maschere. Era proibito farlo, a tutti. Si trattava della prima sacrosanta legge che era stata loro impartita quando avevano accettato di prendere parte alla rivoluzione. Ma non poteva farne a meno, ecco tutto. Gli sembrava sbagliato gettare quei corpi nell’inceneritore senza averli prima guardati. Doveva riconoscere almeno quel poco di umanità che era rimasta nelle loro vere facce anche dopo morti, e che le maschere annullavano completamente.
Tirò su il secondo corpo e sogguardò la maschera a righe oblique, verdi e blu. La levò dal viso del ribelle morto e per un momento si sentì mancare la terra sotto i piedi.
Afferrò la testa del cadavere e se la portò bene davanti agli occhi, per poter vedere meglio quel volto fin troppo famigliare. Quello non era un ribelle. No, non lo era affatto, e le domande che affollarono la mente di Gerald in quei pochi istanti furono un’infinità.
La faccia che stava osservando era quella di un prigioniero che aveva interrogato pochi giorni prima assieme a Maschera Blu. Era la faccia del pilota di quel Black Hawk americano abbattuto durante il bombardamento notturno di Eglon.

Cathy, quella sera, stava leggendo quando Gerald entrò in soggiorno con aria abbattuta. Aveva quasi finito la serie di romanzi che lui le aveva suggerito, e aveva in proposito di dedicarsi al più presto a un nuovo libro già individuato tra i vari titoli a disposizione. Tirò su la testa per fissare gli occhi nei fori della maschera di Gerald e si sentì di colpo più serena, come se fino a pochi secondi prima si fosse trovata in pericolo e ora fosse stata portata al sicuro.
«Ciao, Cathy. Tutto bene?» la salutò, sedendosi accanto a lei. La sua voce svelava un innegabile accenno di inquietudine. Ma era così dolce…
Sì, ormai Cathy ne era sicura: si stava innamorando di Gerald, e sentiva che anche lui iniziava a provare qualcosa nei suoi confronti. Ma appartenevano a due realtà diverse, che non si sarebbero mai e poi mai potute incontrare. Lui non era autorizzato a rivelarle nemmeno il proprio nome. Eppure l’aveva fatto, giusto? Aveva accettato il rischio e le aveva detto come si chiamava. Era una prova di enorme fiducia. Aveva messo in un certo senso la propria vita, la propria identità nelle sue mani, e questo piccolo particolare valeva davvero molto.
«Sì, qui è tutto okay. Una giornata tranquilla, come al solito. Tu, invece? Stai bene?»
«Abbastanza» rispose Gerald, ma s’intuiva perfettamente che non era vero. Doveva essere successo qualcosa di brutto quel giorno, considerò Cathy fra sé e sé. Qualcosa di cui molto probabilmente non avrebbe potuto parlare, perciò tanto valeva fare a meno di chiedere.
«Sono felice che tu sia di nuovo qui. Sento la tua mancanza, quando stai via tutto il giorno» gli disse, e la maschera di Gerald si volse verso di lei e improvvisamente scomparve.
Come attraverso l’oblò di una nave precipitata in un’altra dimensione, Cathy vide Gerald afferrare i bordi della propria maschera con le mani. Vide la maschera separarsi dal volto e a poco a poco salire, fino a scoprire il mento, la bocca, il naso, gli occhi, la fronte, i capelli castani e arruffati.
Cathy vide Gerald per la prima volta, e non ebbe nemmeno il tempo di pensare che era un bell’uomo, perché già la bocca di Gerald si era incollata alla sua e le loro lingue si stavano precipitosamente abbracciando.
Da quanto tempo avesse desiderato baciare Gerald, Cathy non riusciva nemmeno a calcolarlo. E lo stesso valeva per lui, naturalmente, anche se non avrebbe mai avuto il coraggio di rivelarlo apertamente. La verità è che la vita di Gerald era cambiata, da quando Cathy era entrata a farne parte. Prima di venire a Eglon non aveva nessuna motivazione alla quale aggrapparsi per continuare a vivere. Adesso, invece, aveva una ragione più che valida per non morire, e cominciava a credere che forse era proprio questo il significato dell’esistenza: avere qualcosa per cui sopravvivere. E per Gerald quel qualcosa, ormai già da qualche tempo, si chiamava Cathy Holmes.
Lasciò cadere la maschera dal divano e con le braccia circondò le spalle di Cathy, stringendola a sé. La donna gli si avvinghiò e si fece sollevare senza opporre resistenza, senza separare le labbra da quelle di Gerald.
La portò nella sua camera da letto, tenendole le mani premute sul sedere per poterla sorreggere e accarezzare. Chiuse la porta con un piede e quasi la lanciò sulle lenzuola, raggiungendola con un balzo e riprendendo a baciarla. Afferrò la camicetta di Cathy e la tolse, gettandola sul pavimento. Le sfilò i jeans e si lasciò levare i propri, stendendosi sul letto sopra di lei e avvertendo finalmente il tepore intimo e profumato della sua pelle a contatto con la propria.
Cathy finì di spogliarlo mentre lui le sganciava il reggiseno e si fiondava a baciarla ancora. Gerald le abbassò infine le mutandine e si soffermò ad accarezzarle i seni, posandovi le labbra con delicatezza. Cathy lo lasciò fare, tenendosi aggrappata con le braccia alle sue spalle e al suo collo.
Il ribelle la spostò un po’ più in là e le percorse le gambe con i polpastrelli, trovandole incredibilmente lisce e seducenti. Le fece allargare le cosce con estrema dolcezza e altrettanto con calma si calò piano piano su di lei, dentro di lei, appoggiandole il viso sul collo per poter respirare la sua pelle e ascoltare il suo respiro che cresceva d’intensità.
Cathy ansimava, e Gerald la stringeva sempre più forte contro di sé, quasi che cercasse disperatamente di fondersi con lei e di saldare la propria pelle nella sua.
Fu in quel momento che la porta si spalancò, e oltre la soglia buia comparve il profilo ombreggiato di una maschera verde. La maschera che Gerald sapeva appartenere a un rivoluzionario che si faceva chiamare Peter Norton.

Sonny Dangerwood stava percorrendo il breve tratto di strada che separava la casa di Terence da quella di Terry, quando la sua attenzione fu catturata dal rumore sferragliante di un garage che si apriva. Volse il viso in quella direzione, distrattamente, con la testa ancora occupata dall’immagine del corpo insanguinato del suo vecchio amico, e localizzò immediatamente il garage incriminato. L’interno era completamente buio, e Sonny fu costretto a coprirsi gli occhi con una mano per via del sole.
Era una zona di periferia, e le case lì attorno avevano tutte quante i balconi chiusi e le porte sprangate, quasi che gli abitanti le avessero recentemente abbandonate senza preavviso. Anche l’abitazione con il garage spalancato si presentava come tutte le altre, con la porta bloccata da assi di legno inchiodate ai lati e finestre nascoste dietro spessi balconi scrostati. Ma il garage era appena stato aperto, il che significava che doveva per forza abitarci qualcuno.
Come a conferma delle supposizioni di Sonny, uno dei furgoncini blindati adoperati dai ribelli comparve sulla strada e s’immise tranquillamente nel vialetto della casa, introducendosi senza fretta nell’interno buio del garage aperto. Il motore fu spento e il portone si richiuse, dando però a Sonny il tempo di intravedere un uomo con la maschera scendere dal posto di guida.
Sonny si guardò attorno con circospezione, lievemente disorientato.
«Ti chiedi anche tu che cosa succeda nelle case fantasma, vero amico?» gli domandò improvvisamente una voce alle sue spalle, facendolo sobbalzare. Si girò di scatto e si trovò davanti la faccia deforme di Jason Paintree, che conosceva anche troppo bene.
«Case fantasma?» riuscì a ripetere Sonny, mostrandosi spaesato.
«Sì, le case fantasma. Secondo te che cosa fanno là dentro, eh? Torturano le persone e mangiano carne umana, oppure dormono e scopano e giocano a carte come tutti noi?»

«Oh, cazzo» farfugliò “Peter Norton” sulla soglia della camera di Gerald, con la mano ancora appiccicata al pomello della porta.
Gerald si staccò velocemente dall’abbraccio di Cathy; quest’ultima si affrettò ad afferrare un lembo delle lenzuola e a coprirsi il corpo nudo, indietreggiando sul letto fino ad appoggiare la schiena alla testiera gelida.
Il silenzio strinse in pugno la stanza semibuia e i due ribelli rimasero immobili a guardarsi, confrontandosi e cercando di capire che cosa pensasse l’altro. Fu Gerald il primo a prendere la parola, dopo qualche minuto di stallo, in tono deciso e misurato: «Calma, amico. È tutto okay.»
«Tutto okay? Non mi sembra proprio, amico» ribatté freddamente “Peter”, con aria beffarda. «Non mi sembra okay per niente. Ti sei tolto la maschera.»
«Sì, lo so. Ma è tutto a posto. Adesso stiamo calmi, andiamo di là e ne parliamo un attimo.»
«Non c’è niente di cui parlare» lo contraddisse “Peter”, scuotendo energicamente il capo in segno di diniego. «Niente di niente. Ti sei tolto la maschera e hai mostrato il volto. Ti stavi sbattendo una civile, e oltretutto lo facevi senza maschera! Scommetto che le hai anche detto il tuo nome!»
Il silenzio di Gerald fu più eloquente di qualsiasi tentativo di risposta.
«Sì, hai ragione, parlerò molto volentieri di questo. Ma non con te. Samuel Grey dev’essere informato della cosa al più presto. Hai violato la procedura in tutti i sensi, hai messo in pericolo la causa, hai rivelato la tua fottutissima identità.» Fece un paio di passi in avanti, puntando il dito contro Gerald. «Sei finito, amico. Out. Sai benissimo che Grey non tollera queste cazzate. E quando lo verrà a sapere, allora sì che ti infilerà quella cazzo di maschera nel…»
Ma non ebbe tempo di finire, perché la sua voce fu troncata di netto dal rimbombo di uno sparo. E Gerald McGale, con la pistola fumante stretta nella mano, lo osservò stramazzare sul pavimento.

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