lunedì 5 gennaio 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 14

Terry McCallister richiuse il garage senza fare troppo rumore e si infilò le chiavi di casa nella tasca dei jeans, accanto al pacchetto sgualcito di vecchie Marlboro che aveva riesumato la sera precedente da un cassetto della scrivania rimasto inesplorato forse per mesi.
Era tempo di ricominciare, aveva stabilito quella notte mentre ci rifletteva su senza troppo impegno. Quale momento migliore di questo per riprendere con le sigarette? Dopo una pausa forzata di quindici anni, non c’era niente di meglio che lasciarsi riempire la gola e i polmoni di fumo per riprendere a vivere nella maniera più adeguata. Queste furono le conclusioni alle quali giunse Terry mentre saliva a bordo della sua motocicletta e la avviava. L’Imperatrice, così come la chiamava lui, rispose alla dolce carezza della sua mano sulla chiave d’avvio con un ruggito potente e voglioso, che come un gemito sessuale lo scosse da capo a piedi e gli fece venire i brividi.
Oh sì, sei pronta a divorare l’asfalto, pensò Terry, sentendosi incredibilmente eccitato. Udire il rombo accattivante del motore della sua motocicletta era come rinascere per una seconda volta e uscire di nuovo dal grembo della madre per vedere la luce a lungo proibita. Il sangue nelle sue vene stava ribollendo, questo era poco ma sicuro.
Partì con un lieve scatto in avanti, uscendo dal vialetto di casa e immettendosi nella carreggiata senza prima controllare che la corsia fosse libera. Gli andò bene, perché nonostante fossero le dieci del mattino non stava passando nessuno di lì. Rallentò per fare la curva e si sistemò al centro della strada, quindi diede gas e filò via come un razzo.
Il casco gli vibrava attorno alla testa, e tutto il suo corpo era teso a contrastare il vento impetuoso che tentava invano di disarcionarlo. Svoltò a sinistra e accelerò, superando un’auto che procedeva lentamente nella sua stessa direzione ed evitando un paio di pedoni che attraversavano la strada.
Aveva intenzione di fumarsi una bella sigaretta, una volta finito quel rapido giro della città in sella alla sua Imperatrice. La sua prima sigaretta dopo una pausa forzata durata quindici lunghi anni. Ora che poteva permetterselo, la motocicletta e le sigarette sarebbero state le sue uniche compagne di vita. In fondo, adesso tutti erano liberi di fare tutto a Eglon, giusto? Entro le restrizioni poste dai rivoluzionari, certo, ma pur sempre al di fuori delle costrizioni precedenti che adesso erano immancabilmente decadute…
Sorrise e accelerò ancora, inserendosi in Main Street e abbassandosi per assumere una posizione più aerodinamica. Nessun vento poteva farlo vacillare, nessuno stop poteva mettersi tra lui e lo spazio infinito che si sarebbe srotolato sottoforma di asfalto a contatto con le gomme dell’Imperatrice. Era libero, finalmente libero di volare per conto proprio.
Era la mattina del dodici settembre, e Terry McCallister era finalmente, ufficialmente, inderogabilmente libero. Quanto gli piaceva crogiolarsi in questi pensieri mentre correva sulla sua moto, accidenti! Era come avere uno speciale orgasmo mentale!
Il suo sorriso si storse e assunse le sembianze di una smorfia d’orrore. Non fece in tempo a registrare ogni dettaglio di ciò che aveva visto, e ben presto l’istantanea scattata dal suo cervello sfumò in un’inquadratura sfocata. Strinse le dita attorno ai freni, e le ruote dell’Imperatrice si bloccarono e gli pneumatici stridettero sull’asfalto secco, lasciandoci impressa una scia di gomma nerastra che odorava di bruciato.
L’Imperatrice si fermò in mezzo alla strada semivuota. Terry McCallister alzò la visiera del casco e si volse con aria sconcertata, facendo cigolare i tendini del collo nel tentativo di costringerli a una rotazione irregolare.
Oltre le sue spalle, appeso per una corda la cui estremità era legata attorno alla testa di un lampione aggettante verso il centro della carreggiata, il cadavere di un uomo con gli occhi strabuzzati e la pelle gonfia e violacea penzolava a un paio di metri dall’asfalto, morto impiccato.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 14
LA CACCIA È APERTA

«Direi che è un bel problema…» bofonchiò il vicesceriffo Patrick Wieler scostando leggermente la tenda e scrutando l’esterno con fare inquieto.
«Sono assolutamente d’accordo» approvò Brian Jones con un grave cenno del capo, imitando il poliziotto e ritraendosi immediatamente per lasciare spazio sufficiente a Jeremy Barton affinché vedesse con i propri occhi.
«Non possiamo farci niente, per il momento» replicò il vicesceriffo Wieler andando ad accomodarsi su una delle sedie disposte attorno al tavolo della cucina di Phil, il poliziotto che li aveva ospitati la notte dell’attacco. La mattina prima, quando loro tre erano usciti, personalmente aveva ammonito i colleghi a prestare la massima attenzione. La sera, poi, erano rientrati dopo il loro giro di ispezione presso le barricate settentrionali della città e non avevano trovato nessuno. La casa di Phil era ineluttabilmente vuota, e non era comparsa anima viva per tutta la notte. A turno Patrick, Jeremy e Brian avevano dormicchiato un paio d’ore sul divano, lasciando sempre uno dei tre sveglio a fare la guardia. Non era successo nulla, ma questo silenzio non appariva comunque un granché rassicurante.
«Forse li hanno beccati» azzardò finalmente Jeremy, dando voce alla preoccupazione che era di tutti, ma che nessuno aveva il coraggio di formulare a parole.
«Può darsi,» concesse Brian sedendosi dall’altra parte del tavolo, «ma è anche possibile che se ne siano andati di propria spontanea volontà. Magari hanno fiutato qualche pericolo e hanno preferito levare le tende…»
«Avrebbero lasciato un biglietto o un qualche genere di indizio» ribatté Patrick, interrompendolo con voce stanca.
«Forse non ne hanno avuto il tempo» insisté Brian, sebbene apparisse lui stesso poco convinto delle proprie tesi, malferme e inconsistenti.
«Ad ogni modo, resta il fatto che abbiamo perso le tracce dei poliziotti che erano con noi e dell’intera famiglia di uno di loro» riprese Jeremy, cupo. Si riferiva naturalmente alla famiglia di Phil, che abitava in quella casa vuota nella quale si trovavano loro adesso. Non era rimasto nulla a indicare dove potessero essersi cacciati, e ad essere sincero Jeremy cominciava a temere piuttosto seriamente il peggio.
«Sentite, l’Esercito è qui ormai, e penso sia soltanto questione di tempo prima che i soldati irrompano in città e sistemino la questione. Dobbiamo solamente aspettare…» saltò su all’improvviso il vicesceriffo Wieler, dimostrando di essere più che consapevole di quello che stava dicendo.
«Non credo proprio che sia così semplice. Avete sentito e visto quei mortai, ieri pomeriggio, quando hanno fatto fuoco contro le prime linee dell’Esercito. Era un segnale. Un messaggio. Diceva di stare alla larga da Eglon e di non immischiarsi. No, i soldati non irromperanno in città. Non abbastanza presto, in ogni caso. Ce la dobbiamo sbrigare da soli» lo contraddisse Brian Jones con estrema calma, parlando senza un filo di agitazione nella voce e facendo emergere il suo accento aristocratico e, ora che Jeremy ci prestava attenzione, vagamente inglese.
«Ma l’Esercito…» principiò a difendersi Patrick Wieler, scosso.
«L’Esercito è qui soltanto per una mera questione di facciata, vicesceriffo. Dovresti rendertene conto più di chiunque altro. L’opinione pubblica sarà dilaniata dalle proteste, la notizia avrà già messo in subbuglio tutto quanto il globo. Non possiamo nemmeno immaginare che cosa stia accadendo fuori di qui. L’America ha bisogno di conservare le apparenze, gli Stati Uniti devono far vedere che la rivoluzione è contenuta e che la città presa d’assalto è ora tenuta sotto stretto assedio dalle forze armate. In realtà, così facendo facilitano il gioco ai terroristi» spiegò Brian Jones assumendo un sottile tono di sufficienza che si affrettò a reprimere, riacquistando il proprio galante accento aristocratico
(e inglese)
che sapeva inevitabilmente di affidabilità, nonostante l’immancabile retrogusto di presunzione.
«Dovremmo riuscire a comunicare con loro…» avanzò Jeremy dopo qualche istante di silenzio.
Brian si volse a guardarlo e gli rivolse un sorriso stentato. «Detta così sembra facile. Ma di certo sarebbe utile avere la possibilità di comunicare con l’Esercito…» rifletté.
«Potremmo aiutarli a coordinare le operazioni. Se non hanno modo di vedere dentro la città, potremmo essere noi i loro occhi…» convalidò il vicesceriffo Wieler, pensieroso.
«Prima però dobbiamo capire che fine hanno fatto Phil, la sua famiglia e tutti gli altri poliziotti» ricordò loro Jeremy, riemergendo inaspettato come la voce della coscienza che ritorna a rammentare quale sia la cosa più giusta da fare.
«Già…» concordò Brian Jones, estraendo la pistola dalla fondina nascosta dietro la giacca e controllando rapidamente che fosse carica.

«…non ti sto dicendo che la devi cacciare fuori, sto semplicemente cercando di farti capire che non la voglio qui. Non mi sento a mio agio, ecco tutto…» mormorò Betty, facendo palesemente il possibile per tenere un tono di voce basso ma allo stesso tempo dando l’impressione di non preoccuparsi minimamente dell’eventualità che la diretta interessata potesse sentirla.
«Tesoro, te lo ripeto: non ha nessun posto dove andare, e finché non troviamo mio padre o suo cugino lei rimarrà qui» ribadì stancamente Daniel Green, strofinandosi gli occhi con mano leggera. Quella notte aveva dormito quasi otto ore, eppure si sentiva ancora stanco quanto la sera prima. Gli ritornò in mente la faccia spaventata con la quale Betty l’aveva accolto nel tardo pomeriggio, quando era rientrato a casa, e l’espressione incredula, sbalordita e sotto sotto risentita che aveva prodotto appena Rebecca aveva varcato la soglia dietro di lui.
Le avevano spiegato tutta quanta la storia, rammentò Daniel. Betty si era dimostrata comprensiva e non aveva detto niente. Aveva preparato il divano a Rebecca e aveva lasciato dormire entrambi, rimanendo sveglia in camera con lui a guardare fuori dalla finestra.
Addormentandosi aveva pensato che la sua ragazza, dopotutto, l’aveva presa bene… Evidentemente si sbagliava.
«Non mi va di avere un’estranea in casa, Daniel. Non sappiamo niente su di lei. Magari è con quelli là…» ipotizzò Betty, riferendosi ovviamente ai ribelli che avevano attaccato e conquistato la città gettando la popolazione di Eglon nella situazione di caos più estremo che avesse mai vissuto.
«Ne dubito, amore. Ad ogni modo, lei per ora resta. Decideremo in seguito che cosa fare» concluse in tono categorico Daniel, oltrepassando la porta della stanza e andando verso la cucina per prepararsi una colazione veloce. Aveva in proposito di uscire di nuovo a cercare suo padre. Aveva bisogno di qualche risposta, e dentro casa non l’avrebbe trovata di certo.
E poi, chissà se mamma già sapeva quello che era successo a Eglon nelle ultime ore…

Udì la porta sbattere e tutt’a un tratto scoprì di essere sveglio.
Si guardò attorno e riuscì a distinguere i bordi soffusi dello schienale di un divano in similpelle. Più in là, una parete intonacata di bianco con un paio di quadri appesi. L’aspetto dell’ambiente, visto da quella prospettiva, era generalmente sobrio. Si stava bene. Niente che distraesse, niente che richiamasse troppo l’attenzione. Tutto perfettamente accettabile, ecco.
Sonny si rese conto di essere osservato solamente quando l’uomo che stava alla porta si fu schiarito sonoramente la gola. Si girò di scatto sulla schiena, colto alla sprovvista, e assorbì tutto d’un fiato l’immagine del tizio che lo fissava dall’ingresso del salotto a braccia conserte. Un lieve venticello che odorava di sigaretta lo raggiunse e lo sfiorò, lasciandolo indenne e passando oltre.
«Ti sei svegliato, vecchio?» gli domandò una voce sprezzante e velatamente indifferente che Sonny Dangerwood riconobbe essere quella che il giorno addietro lo aveva salvato, offrendogli un riparo pochi istanti prima di essere scovato e catturato dagli uomini che avevano preso Ben Dolovan. Annuì, visibilmente confuso.
«Ti senti bene?» s’informò, lasciando intendere dal tono di voce che in realtà gli interessava poco o niente.
«Penso di sì» balbettò Sonny, esprimendo con queste parole più una speranza che una vera e propria supposizione.
«L’hai scampata per poco, lo sai?» buttò lì l’uomo sulla porta, senza alterare la posa statuaria a braccia incrociate che aveva assunto quando aveva messo piede nella stanza.
Sonny annuì di nuovo. «Quanto ho dormito?» volle sapere, voltandosi del tutto e mettendosi a sedere sul divano.
«Fai conto che hai perso i sensi ieri pomeriggio e adesso è di nuovo sera» rispose lo sconosciuto senza prendersi la briga di aggiungere altro.
Calò un silenzio imbarazzante. Sonny osservò l’ambiente nel quale si trovava per cercare qualche diversivo, ma lo sguardo gli cadde immancabilmente di nuovo sul tizio che stava alla porta. Lo stava ancora fissando, immobile a braccia conserte. Indossava un giubbotto di pelle o di cuoio – troppa poca luce per dirlo con certezza – e pesanti stivali da motociclista su un paio di jeans slavati.
«L’uomo che era con me? Ben Dolovan?» si ricordò all’improvviso Sonny, sperando che il padrone di casa lo avesse visto il pomeriggio precedente e sapesse di chi stava parlando.
«Vuoi dire il poliziotto?» bofonchiò l’uomo, con fare distaccato.
«Sì, il poliziotto» rammentò Sonny, richiamando alla memoria tutti i fatti che all’interno della sua mente giacevano catalogati in mezzo a quelli degli ultimi giorni.
«Andato» spiegò laconicamente il suo interlocutore, minimizzando la cosa con una disinvolta alzata di spalle.
«Che significa andato
«Significa che i Sorveglianti hanno fatto il loro lavoro, vecchio. Hanno sorvegliato, hanno seguito, hanno scovato e hanno eliminato. Uno a zero, palla al centro. Il tuo amico poliziotto è andato a farsi friggere in un posto che a detta di molti dovrebbe essere più alto e più luminoso di questo, con un’aria decisamente più pulita» illustrò l’uomo con una certa freddezza, lasciando Sonny allibito.
«Lo hanno ammazzato?»
«No, ma che idea ti sei fatto? No, non lo hanno ammazzato, vecchio. Lo hanno portato a fare una passeggiata là dove nasce l’arcobaleno, in un prato di fiorellini con tanti conigli parlanti di peluche tutti colorati» lo rimbeccò il padrone di casa, impassibile.
Sonny inghiottì a vuoto. Ben Dolovan, il poliziotto che gli aveva salvato la vita una manciata di ore prima, era… morto. Possibile? Succedevano davvero cose del genere, nel mondo reale?
«Chi sono i Sorveglianti?» chiese Sonny Dangerwood con un filo di voce impastata.
L’uomo che stava alla porta finalmente sciolse le braccia e gli si avvicinò di un passo, squadrandolo con incredulità. «Ma in che razza di città ti sei svegliato, tu, la mattina dell’ultimo undici settembre?»

Cathy si profuse in un sonoro sbadiglio, senza badare di nascondersi la bocca con una mano, e riportò gli occhi sulle pagine del romanzo che stava leggendo. Reggeva il libro nella destra, sollevandolo il più vicino possibile al viso per far sì che le pagine raccogliessero tutta la luce proveniente dalla piccola finestra alle sue spalle, e teneva il segno con un dito. L’intestazione della facciata di sinistra recitava in caratteri corsivi: CAPITOLO VII. Cathy trovava avvincente quella storia, anche se l’aveva iniziata da poco, e aveva deciso che avrebbe seguito tutta quanta la serie, i cui sette volumi erano disposti in bella mostra sullo scaffale addossato alla parete di fronte.
Voltò pagina e spostò il dito per continuare a tenere il segno. La luce di fuori andava trasformandosi in una pozza rossastra via via più soffusa. Tra poco avrebbero acceso le lampadine del salone, ma non era ancora giunto il momento di farlo. La luce, lì dentro, funzionava con un generatore e Cathy aveva capito che i padroni di casa preferivano conservare più carburante possibile in vista di tempi che prevedevano sarebbero diventati senza ombra di dubbio più difficili.
Erano stati carini con lei. Specialmente l’uomo con la maschera nera e blu, che le aveva rivelato di chiamarsi Gerald. Non si erano mai fatti vedere in volto, naturalmente,
(a nessuno di noi è permesso farlo)
ma erano comunque divenuti in un certo senso suoi… amici. Perché l’avevano salvata e perché adesso la stavano proteggendo dai disordini che c’erano là fuori.
Aveva passato la giornata precedente chiusa in quell’appartamento interrato, senza vedere nessuno eccetto Gerald. L’uomo le aveva spiegato che cosa stava succedendo esattamente a Eglon e l’aveva rassicurata sul fatto che non sarebbe morto nessuno che non lo meritasse almeno in parte. Lei aveva accettato e digerito la cosa, un po’ perché non aveva scelta e un po’ perché quel Gerald le ispirava fiducia. Dopotutto, era stato lui a portarla via dall’aeroporto cittadino prima che i suoi compagni ribelli demolissero il terminal per lasciare spazio al materiale da costruzione destinato alle barricate. Gli doveva molto, dunque. E sentiva quasi di conoscerlo. Come se fosse un amico d’infanzia o qualcosa del genere, anche se allo stesso tempo era più che sicura che fosse la prima volta che Gerald metteva piede, garbatamente e con una certa eleganza, nella sua vita. Una sensazione strana, contraddittoria, eppure funzionava grossomodo così.
Aveva trovato il libro che stava leggendo proprio quella mattina, dopo essersi svegliata. Aveva chiesto a Gerald se poteva dargli un’occhiata, e lui le aveva risposto che facesse pure come se fosse stata in casa propria. Lo aveva ringraziato e si era immersa nella lettura, sentendosi assorbita immediatamente dalla narrazione.
Gerald aveva da fare, quel pomeriggio. Le aveva detto di aspettarlo pure per cena, ma che non era sicuro di farcela ad arrivare in tempo. Non le aveva svelato nient’altro. La sua mancanza si era fatta sentire, perché era da quando si erano incontrati nel terminal aeroportuale che lui era divenuto il costante punto di riferimento di Cathy. Gli altri uomini mascherati che transitavano di quando in quando da una stanza all’altra non li conosceva, né tantomeno loro le avevano mai rivolto la parola. Quasi che… non ci fosse, ecco. La ignoravano senza farsi problemi, ma Gerald no. Gerald era carino con lei. La trattava sempre con cordialità e dolcezza, e Cathy sapeva che sarebbe potuto sembrare assurdo, ma le pareva di iniziare a sentirsi legata a Gerald. E adesso era un po’ preoccupata per lui, perché non sapeva dove fosse e che cosa stesse facendo. Con quello che stava capitando là fuori, gli sarebbe potuta succedere qualunque cosa.
Voltò pagina ancora una volta e spostò il dito per non perdere il segno. La luce continuava a diminuire d’intensità, e presto Cathy non sarebbe più riuscita a mettere a fuoco abbastanza bene le parole sulla carta. Si sarebbe dovuta interrompere finché non avessero acceso qualche lampadina, per non rischiare di sforzare troppo gli occhi e farsi venire il mal di testa.
Trovarsi in una casa sconosciuta, con uomini dai volti coperti che giravano armati fino ai denti dalla mattina alla sera come se niente fosse, non la intimoriva per niente. Si sentiva al sicuro, lì dentro. Certo, se non ci fosse stato Gerald a rasserenarla probabilmente un po’ di apprensione l’avrebbe provata eccome, ma siccome Gerald c’era e sarebbe ritornato al massimo entro qualche ora si sentiva tutto sommato piuttosto tranquilla.
A conti fatti, stava decisamente meglio lei, in quell’appartamento interrato, di tutti gli abitanti di Eglon che si trovavano là fuori.
La luce si fece ancora più fiacca, così Cathy raccolse dal tavolino davanti a sé il segnalibro che vi aveva posato un paio d’ore prima e lo piazzò sulla pagina alla quale era arrivata, chiudendo il romanzo e alzandosi per riporlo sullo scaffale.
«Cathy… Come stai?» la colse di sorpresa una voce alle sue spalle. La giovane donna sobbalzò e si girò quasi di scatto, scorgendo dinnanzi a sé la maschera anonima e imperscrutabile di Gerald.
«Ah, sei tu» mormorò con un sospiro di sollievo. «Mi hai spaventata. Ciao. Tutto bene, grazie. Sei tornato presto…»
«Ho finito prima del previsto» spiegò Gerald indicandole il divano e prendendo posto accanto a lei.
«È andata bene?» s’informò Cathy, accorgendosi solo superficialmente dell’assurdità della situazione: stava parlando a un perfetto sconosciuto come a un marito appena rincasato dopo il lavoro, e la cosa appariva alquanto buffa. Anche se, a dire il vero, in quel momento la trovò del tutto normale.
«Sì, suppongo di sì» restò sul vago l’uomo, sogguardando lo scaffale dei libri. «A che capitolo sei arrivata?» volle sapere, in tono di viva curiosità.
«Al settimo» rispose Cathy, sorridendo apertamente. «Mi sta davvero prendendo.»
«Posso crederti. È uno dei miei libri preferiti» confessò Gerald, e il viso della ragazza si illuminò.
«Dici sul serio?»
«Ma certo. Tutti i libri che vedi in quello scaffale li ho portati qui io. Per avere qualcosa da leggere nelle prossime settimane, quando il grosso dei lavori sarà stato completato e non ci rimarrà che attendere» chiarì Gerald, e dal tono della sua voce si intuì che stava sorridendo.
«Caspita… Sei un divoratore di romanzi…» commentò Cathy passando in rassegna il mobile con lo sguardo. «E un lettore onnivoro, oserei aggiungere.»
«Sì, leggo un po’ di tutto» confermò Gerald con un’alzata di spalle. «Se ne hai voglia, possiamo leggere qualcosa insieme.»
«Ne sarei davvero felice» approvò Cathy, e i loro occhi si saldarono in un contatto improvviso che nessuno dei due ebbe il coraggio di interrompere.

«Buon appetito…» mormorò Robert, affondando la forchetta negli spaghetti al pomodoro che Sarah aveva appena servito in tavola.
«Buon appetito» gli fecero eco Stan, Sarah, Michael e Christine. Questi ultimi rimasero fermi per qualche istante, fissandosi con fare un po’ impacciato. Non cenavano allo stesso tavolo da un tempo incalcolabile, e la situazione non pareva solamente strana, quanto piuttosto assurda.
Stan cercò di abbozzare un mezzo sorriso all’indirizzo del piccolo Michael, che senza indugio abbassò gli occhi sul proprio piatto e cominciò a mangiare come se fino a quel momento avesse atteso il permesso del papà. Christine scoccò un’occhiata alla madre e si chinò a sua volta sugli spaghetti fumanti, distogliendo lo sguardo con lesta fulmineità.
Sarah iniziò a mangiare, così Stan, per non dare l’impressione di essersi perso nei pensieri, raccolse un’abbondante forchettata di pasta e se la infilò in bocca senza rifletterci. Scottava. Gli occhi presero a lacrimargli, ma fece finta di nulla e mandò giù. Anestetizzò la lingua con un bel sorso di acqua fresca, e posando il bicchiere gli venne da chiedersi quanto a lungo, ancora, sarebbe durata quell’apparente normalità. Il cibo in città avrebbe cominciato presto a scarseggiare, e l’Esercito non sarebbe rimasto fermo alle porte di Eglon senza muovere un solo muscolo. I ribelli lo sapevano, come pure i cittadini. Ma forse nessuno sapeva con esattezza che cosa sarebbe accaduto in seguito, quando gli scontri fossero ripresi. Anzi, quasi sicuramente era così.
Quale sarebbe stata la prossima mossa? A chi toccava spostare la propria pedina per primo?
Un calpestio veloce dietro la porta d’ingresso. Stan lo percepì e sollevò la testa, lasciando la forchetta a mezz’aria, a metà strada tra il piatto e la bocca. Gli altri non si accorsero di nulla. Forse se l’era immaginato.
Ma ecco che un altro rumore di passi proveniente dalla finestra lo raggiunse.
Sollevò una mano e si portò l’indice alle labbra per fare segno agli altri di stare in silenzio. I presenti si paralizzarono, come in una vecchia fotografia sfocata, e i passi ripresero lungo il vialetto d’accesso dell’abitazione, scomparendo al di là del giardino.
«Che cosa…?» principiò Sarah, ma Stan era già in piedi e si stava dirigendo di gran carriera verso la porta d’entrata. Robert alzò le spalle, sporgendo la testa per vedere che cosa facesse l’ex marito della sua fidanzata.
Stan ritornò in cucina subito dopo, reggendo in mano un foglio di carta che sembrava un volantino. Lo stava leggendo, e la sua espressione era cupa e vagamente ansiosa.
«Cos’è?» volle sapere Robert.
Stan finì di leggere e tirò su la testa, passando in rassegna i volti scuri della sua famiglia e soffermandosi poi su quello attento dell’uomo.
«Un avviso. O, meglio, una segnalazione» esordì Stan in tono roco. Riabbassò gli occhi sul volantino che reggeva tra le mani e lesse a voce alta: «Si allerta la popolazione di Eglon a prestare la massima attenzione a tutti i poliziotti ancora in libertà. La polizia è nemica della Rivoluzione, perciò nostra e vostra nemica. Invitiamo tutti voi a denunciare qualunque poliziotto conosciate o incontriate. Chiunque verrà pescato a dare protezione a un poliziotto sarà incarcerato. Invitiamo inoltre tutti i poliziotti a disarmarsi e a consegnarsi di propria spontanea volontà, promettendo che non verrà fatto alcun male né a loro né alle loro famiglie. Per quanto riguarda invece tutti quei poliziotti che ancora vagano liberamente per le strade di Eglon con l’intenzione di fermare la Rivoluzione, il messaggio è il seguente: la caccia è aperta.»

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