venerdì 26 dicembre 2014

Lacrime di Cenere - Volume 1: In Fuga dalla Morte - Capitolo 7 (Anteprima)

Il campo base di fortuna che i militari avevano allestito attorno agli elicotteri era costituito da un semplice perimetro di filo spinato, con alcuni sacchi di terra accatastati per renderlo più stabile. Al centro, oltre ai velivoli, c’erano dei trasporti leggeri e un piccolo carro armato.
I ragazzi furono lasciati in un angolo dove un ufficiale li raggiunse dopo mezz’ora di attesa.
«Da dove venite?» esordì, senza nemmeno presentarsi.
«Eravamo a lezione all’università» spiegò Leonardo senza tanto girarci intorno. Aveva la gola secca e gli occhi gli bruciavano per tutta la polvere che gli spari e le esplosioni avevano sollevato.
Quella mezz’ora di pausa dopo tutta la paura che aveva provato nelle ore precedenti gli aveva fatto bene. Aveva avuto tempo per metabolizzare, almeno in parte, le immagini che gli erano passate sotto gli occhi durante il resto della giornata, e ciascuna di quelle visioni gli martoriava dolorosamente i pensieri.
Quante persone erano morte in un giorno? Quanto in fretta? Quanti zombie camminavano per le strade della città di Padova, a caccia di superstiti da sbranare?
«All’università» ripeté l’ufficiale, come scettico.
«Non è lontana. Ci siamo rifugiati sul tetto e siamo scesi lungo la scala antincendio. Il vostro arrivo ha distratto gli zombie.»
«Zombie, eh?» replicò il militare, quasi che davvero facesse fatica a capire quello che sentiva.
«Sono morti in tanti. Ne abbiamo visti a centinaia, solo qui intorno. Che cosa sta succedendo?»
L’ufficiale si girò dall’altra parte ed esaminò le difese erette col filo spinato con apparente concentrazione. Leonardo tenne gli occhi su di lui. Dopo qualche istante i loro sguardi si incrociarono e il militare sospirò tristemente.
«Mi piacerebbe sapertelo dire, ragazzo.»
«Questioni di segretezza nazionale?» borbottò Marta quasi in tono di sfida.
«Oh no, tutt’altro. Non c’è niente di ufficiale in quello che stiamo facendo qui. Niente di niente. Non ci sono arrivati ordini. Nessuno ci ha detto cosa fare. Siamo partiti questa mattina presto per andare a dare manforte a un reparto nel Sud che sembrava avesse a che fare con un problema piuttosto insolito. Dopo quattro ore di viaggio ci hanno detto di tornare indietro. Sorvolavamo Padova e avevamo poco carburante. Silenzio radio. Così siamo atterrati.»
«Gesù…» sussurrò Giorgio, esterrefatto.
«No, ragazzo: quei morti che si rialzano non hanno niente a che fare con Gesù. Non tornano indietro per salvarci, tornano indietro per mangiarci. Hanno fame, e noi a quanto pare odoriamo di roba buona» commentò asciutto l’ufficiale, ascoltando il boato di un’esplosione poco distante. «Se avessimo saputo che anche qui in città la situazione era degenerata così in fretta, saremmo atterrati fuori, in campagna. Invece…»
«Davvero non sapete proprio niente?» insisté Leonardo, dubbioso.
Il militare lo fissò con aria interdetta. Si passò una mano sulla fronte e guardò ancora una volta altrove, quasi che avesse timore di sostenere il suo sguardo.
«Abbiamo captato pochi segnali mentre eravamo in movimento. Squarci di ordini che volavano a destra e a manca. Roma era sotto assedio da parte della popolazione, stando alle notizie che riuscivamo ad afferrare. Ma la popolazione non era, come dire… incline alla diplomazia. Le persone attaccavano la gente per strada, nelle case, un gruppo è entrato in Parlamento e… non era una semplice protesta. Né una rivolta. Lo abbiamo capito subito. C’era gente morta che attaccava i vivi, e dapprima non ci credevamo, ma poi quando abbiamo allargato le frequenze…»
«…stava succedendo dappertutto» finì per lui Leonardo, meditabondo.
«Già» confermò l’ufficiale, abbassando il capo. «Notizie da Berlino, Parigi, Londra, frammenti di conversazioni e notiziari che volavano nell’aria e si accavallavano. Poi le voci si sono spente. Ad una ad una, e non era colpa del nostro ricevitore. Sono scattati i segnali di emergenza. Emergenza nazionale, ma la portata è molto, molto più ampia. Prende tutto il mondo, temo.»
Leonardo si rese conto che a poco a poco le parole che conosceva stavano tutte perdendo di significato. Pronunciarle sarebbe stato inutile, come emettere suoni privi di alcun senso.
«Ad ogni modo, non è detto che sia così. Guardateci: noi stiamo resistendo, in piena città, e…»
«Il perimetro è compromesso!» berciò qualcuno alle spalle dell’ufficiale.
L’uomo divenne pallido come un lenzuolo steso al sole ad asciugare. Portò la mano verso l’impugnatura della mitragliatrice e produsse un mezzo sorriso amaro, come di scuse. «A quanto pare, devo aver fatto male i miei conti. Restate dietro di me, se potete. Non badate a quello che vi ho detto, non troppo almeno. Sono sicuro che non è dappertutto drammatica come qui. Ora scusate, ma devo pensare ai miei uomini.»
Si girò dall’altra parte e sbraitò a un paio di soldati l’ordine di salire sul carro armato.
«I morti hanno circondato il mezzo corazzato, siamo tagliati fuori!» strillò una voce in mezzo al frastornante fragore degli spari.
«Mantenete la posizione e cercate di liberare il carro armato! Ripulite il perimetro!» ordinò l’ufficiale sgusciando via e scomparendo dietro il profilo di un elicottero fermo.
«Dobbiamo andarcene» sussurrò Leonardo preoccupato.
«Sono militari, sanno difendersi» si oppose Marta, sebbene con poca convinzione. «Riprenderanno il controllo del perimetro. Siamo al sicuro qui dentro, hanno le armi e ci possono proteggere!»
«Hai sentito cos’ha detto quell’ufficiale? Le altre città, gli altri Paesi… Sta succedendo dappertutto! Dobbiamo lasciare la città, dobbiamo uscire in fretta da questo posto, o sarà la fine anche per noi!» insisté Leonardo, alzandosi in piedi e avviandosi in direzione del filo spinato alle loro spalle.
«Vuoi farti ammazzare?» gli gridò dietro la ragazza, incerta.
«Non lasceranno mai la posizione. Sono soldati, è il loro mestiere. Cercheranno a tutti i costi di riprendersi il carro armato, e quando saranno circondati…»
«Non abbiamo scelta» intervenne Giorgio, alzandosi a sua volta in piedi. «Anche questo posto è perduto. Non possiamo aspettare che ci siano addosso. I soldati li terranno occupati per un po’.»
Marta lo osservò con diffidenza. Spostò lo sguardo da lui a Leonardo e poi sogguardò per l’ultima volta il punto in cui l’ufficiale era sparito sbraitando i suoi ordini ai soldati. Annuì a malincuore e li seguì, in direzione dei filo spinato.
«C’è un soldato morto lì a terra» notò la ragazza quando stavano per passare dall’altra parte. Il cadavere indossava la tuta mimetica con lo stemma dell’Esercito italiano ed esibiva un grosso morso sul collo e un foro di proiettile giusto in mezzo agli occhi. «Dev’essere qualcosa nella testa che li fa risvegliare. Questo qui non si è mosso, e sembra essere morto già da un pezzo.»
«Ha una pistola» sottolineò Giorgio con un pizzico di riverenza.
Leonardo si abbassò sul corpo e con estrema circospezione sfilò la pistola dalla mano del soldato. Frugò per un attimo nelle tasche della cintura e ne estrasse una scatoletta di plastica piena di munizioni. Fece per alzarsi, ma poi ci ripensò e slacciò anche la fondina, passandosela attorno alla vita e legandola ben stretta per riporvi l’arma.
«Possiamo andare» concluse, e i tre attraversarono il filo spinato pochi istanti prima che le raffiche di mitragliatrice all’interno del campo militare si esaurissero del tutto.

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