venerdì 4 ottobre 2013

Pista di Atterraggio

C’erano davvero poche persone, in paese, che fossero in grado di ricordare l’origine di quel piccolo agglomerato di case sgangherate. Una di queste era Antonio, proprietario, gestore, amministratore e unico cameriere di una tavola calda dal caratteristico nomignolo di “Luna Storta”, che attirava una clientela la cui età media sfiorava quella del leggendario Matusalemme. Ad Antonio l’aveva raccontata suo nonno quand’era bambino, e anche se ogni tanto gli capitava di dimenticarsi le cose – Alzheimer, aveva diagnosticato con aria severa il dottore, ma Antonio non aveva mai capito fino in fondo che cosa diamine volesse dire quella parola tedesca; mica era crucco, d’altro canto – questa non se l’era mai lasciata sfuggire di mente. La conservava in un angolo apposito nella sua scatola cranica, sopra una mensola che di tanto in tanto, fatto carburare il secondo bicchierino di rosso intorno alle dieci del mattino, si prendeva la briga di spolverare con paziente cura.
Il paese era più che altro un modesto condensato di vecchie fattorie in aperta campagna successivamente riconvertite ad abitazioni, come rimasugli di carne e verdura compattati in un minuscolo dado da brodo. Il cuore pulsante del centro abitato era una chiesetta di pietra, accompagnata come una dama all’altare da un alto campanile moderno con il tetto spiovente – un pugno su un occhio, lo giudicavano i più, ma visto da lontano non si poteva certo dire che non facesse il suo effetto – che era stato progettato e messo in piedi dalla ditta del figlio di Gilberto, il quale era invece un semplice contadino con le tasche bucate e la passione per il tabacco da masticare.
Pochi dunque, tra i quali figurava per l’appunto Antonio, sapevano che il paese era storicamente sorto – o, forse, sarebbe stato meglio dire sbucato – in prossimità di una vecchia pista di atterraggio per gli aeroplani che in tempo di guerra era servita ai tedeschi per tenere sotto controllo il traffico dei rifornimenti, ma sui resti della quale si coltivava ormai granoturco da almeno mezzo secolo. La pista, in passato, era costituita essenzialmente da un lungo tratto rettilineo di terra battuta sulla quale si facevano atterrare e decollare gli aerei carichi di vettovaglie, mentre la torre di controllo – se così la si poteva effettivamente definire – era rappresentata da un casotto di legno senza tetto e con una sola finestra affacciata sulla pista, che alla fine della guerra era arso in un rogo tanto fulmineo da essere stato acceso al tramonto e aver smesso di fumare verso l’alba.
Ma la storia più interessante, a conti fatti, non era quella dell’aeroporto – nome un po’ troppo altisonante, per quel campo seccato dal sole – in sé, bensì quella dell’aereo scomparso.
L’aereo scomparso era un banalissimo velivolo di trasporto tedesco con una stiva tanto piccola da poter invidiare il bagagliaio di una Porsche. Trasportava generi di prima necessità quali liquori, polvere da sparo e sigarette e si era volatilizzato prima di arrivare a destinazione il 19 febbraio del ’44, o forse il 20 o magari persino il 21. L’ultima segnalazione di avvistamento era avvenuta circa quindici chilometri prima dell’aeroporto, e poi più niente. Quella volta i tedeschi si erano incazzati a morte, convinti che fossero stati quei cani dei partigiani a farglielo fuori, per rubargli alcol e cicche e per fabbricare armi di distruzione di massa con il mezzo chilo di polvere da sparo sottratto. Avevano tenuto prigionieri un paio di contadini prelevati dai dintorni per interrogarli e alla fine li avevano ammazzati, ma dell’aereo non si era scoperto nulla.
Fino al 18 marzo del 2013, in circostanze quanto mai inspiegabili. Accadde verso le due di notte, forse le due e mezza, e a narrare la storia completa in paese fu l’indomani Carlo. Carlo era il nipote di Filiberto, che ci aveva lasciato le penne, assieme a mezzo campo con una vecchia fattoria diroccata, l’anno prima, consegnando tutto in eredità al figlio Emanuele, che dopo tre mesi era andato d’infarto. Seduto al tavolo della locanda di Antonio, raccontò che era fuori a fumarsi una cicca perché non riusciva a dormire per il trambusto del figlioletto che piangeva – aveva sei mesi e per poco aveva mancato l’occasione di conoscere quel beone del nonno. Aveva sentito tutto su un colpo il rombo del motore di un aereo, e un attimo dopo eccolo lì, come materializzato dal nulla, cozzare contro la vecchia fattoria diroccata di Filiberto che si trovava mezzo miglio più in là tra i campi.
La fattoria aveva preso fuoco. Non c’erano corpi, il mattino dopo, tra le macerie, e neppure resti di un aereo. Solo un vecchio diario mezzo bruciacchiato e scritto in tedesco, che riportava fedelmente le quantità di liquori, polvere da sparo e sigarette trasportati da un aeroplano nel lontano ’44.

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