mercoledì 14 agosto 2013

Accordi nel Buio - 2

Lì davanti c’era un cavalcavia che passava sopra la strada, un ponte sostenuto da grosse travi d’acciaio intrecciate che gli davano in complesso un’immagine di ordine e di equilibrio. Pensò che, in fondo, l’universo era dettato da leggi ordinate che conferivano equilibrio ad ogni ente ed evento, e quel viadotto rifletteva perfettamente lo schema che regolava il cosmo. Ma l’unica cosa che usciva da questo rigido modello, da questo saldo scheletro che teneva in piedi tutto quanto, era la mente umana. La capacità dell’uomo di pensare, di provare sentimenti ed emozioni, di desiderare, rappresentava il solo punto di colore nell’omogeneità trasparente di quell’immensa forza regolatrice che governava su tutto.
Aveva voglia di fuggire, ma non poteva muoversi. Era lì che la musica lo aveva portato, e non aveva intenzione di disobbedire per la prima volta in tutta la sua esistenza agli accordi che lo guidavano facendolo brancolare nel buio. Una chitarra elettrica era uno strumento energico e potente. Quando suonava, dava l’impressione di incendiare l’aria attorno a sé. Doveva essere proprio quello il rumore sfrigolante che producevano i fulmini a contatto con l’atmosfera, quello di una chitarra elettrica, e per questo presagiva un evento che avrebbe oscurato tutti quelli già vissuti con la propria immensa ombra tetra.
Da quando sua moglie l’aveva lasciato, dopo venticinque lunghi anni di matrimonio votati a lavorare duramente per lei, per la casa che avevano comprato, per la famiglia che avevano costruito – ormai i figli erano abbastanza grandi da camminare con le proprie gambe per le affollate strade del mondo – non si sentiva più se stesso. Aveva trascorso le ultime serate da solo, stravaccato sul divano del salotto sopra il quale tante volte lui e sua moglie avevano fatto l’amore, con una confezione da sei lattine di Heineken fredda come il polo nord nel ripiano del frigorifero e il telecomando universale Sony piazzato a portata di mano tra i cuscini, a rimuginare sul proprio passato e sui propri errori, mentre davanti ai suoi occhi acquosi e spenti, nei quali non vibrava nemmeno uno smorzato accenno della vitalità che li aveva sempre contraddistinti, scorrevano le mediocrità dei quiz show, dei telefilm e dei notiziari, bombardandolo di immagini e suoni che non percepiva nemmeno con un singolo brandello del proprio cervello.
C’erano stati molti altri avvenimenti, oltre all’incidente di Ronnie nel bagno delle elementari e alla morte di Buddy, il cane dei vicini, preso a bastonate nel loro giardino. Tutti eventi legati indissolubilmente alla musica che avvertiva nella sua testa, a quei bui e misteriosi accordi che lo travolgevano e gli sussurravano di seguirli attraverso le note, proprio come se fossero delle parole.
Per esempio, c’era stata quella volta in cui aveva iniziato ad udire il suono mesto e lineare di un violino. Le melodie si ampliavano a mano a mano che crescevano di tono, e lui si era ben presto visto costretto ad accontentare quella musica e ad andare dove lei voleva. Era uscito di casa, piccolo ragazzino di dodici anni con un paio di pantaloncini corti, maglietta senza maniche e scarpe da ginnastica, aveva attraversato la strada e si era bloccato di colpo sul marciapiede dall’altra parte.
Il violino stava suonando una melodia lenta e struggente, tremendamente malinconica, e ricordava ancora di aver provato un amaro senso di vuoto in quell’occasione. Era lì che lo voleva, proprio in mezzo a quel marciapiede, fermo ad osservare la strada, e a pochi metri dalla punta del suo naso due auto erano cozzate repentinamente una contro l’altra, sfracellandosi e ripiegandosi su se stesse come un’unica fisarmonica, quasi che due grosse mani le avessero afferrate e schiacciate allo stesso modo in cui si pressano due lattine di birra vuote.
Aveva intravisto gli sguardi impotenti dei due uomini dietro i volanti, al di là dei parabrezza che in meno di una frazione di secondo si erano trasformati in un laghetto di cocci di vetro che riflettevano la luce del sole morente, e aveva pensato che il terrore era riuscito ad accoglierli nell’abbraccio delle proprie ali nere solamente per pochi pallidi istanti, senza permettere loro di rendersi conto di che cosa diavolo stesse succedendo, cancellando semplicemente i loro nomi dalla lunga pergamena della vita con una precisa e sottile pennellata di sangue.
Nemmeno due mesi dopo, il ritmico suono di un tamburo, di quelli che gli indigeni delle tribù africane percuotevano per produrre le musiche ipnotiche che accompagnavano le danze attorno al fuoco al calare delle tenebre, aveva scandito i suoi passi e i battiti del suo cuore attraverso il corridoio dell’ufficio dove lavorava papà, fino ad un’ampia vetrata oltre la quale aveva visto la magra silhouette di un uomo d’affari con la valigetta in mano gettarsi senza indugio dal tetto di uno degli edifici accanto e sfracellarsi scompostamente sull’asfalto della strada reso bollente dal sole di agosto.
E la sua vita era andata avanti così, in un’escalation di terrore che lo aveva accompagnato fino ai sedici anni. Poi, la musica se n’era improvvisamente andata, scomparendo nel nulla.
Per diversi mesi aveva atteso il suo ritorno, anche se l’assenza di quella musica che gli provocava irrefrenabili batticuori e incontenibili scatti d’ansia di certo non gli dispiaceva. I suoi genitori lo sorprendevano a balzare in piedi spaventato ogni volta che accendevano lo stereo o la radio, ma a poco a poco aveva cominciato ad abituarsi, e il ricordo di tutti i brutti eventi si era diradato come una bustina di aspirina effervescente lasciata scivolare delicatamente in un bicchiere colmo d’acqua fresca.
Fino alla notte del suo matrimonio, rifletté ora senza quasi farci caso.
Ripensare al giorno delle sue nozze gli fece percepire una lama ghiacciata che gli penetrava il petto, e si figurò l’espressione concentrata di Henry Sorton, il macellaio del supermercato dove aveva lavorato un’estate intera, con il grembiule bianco sporco di sangue mentre gli strappava il cuore dal petto e con uno dei suoi coltelli affilatissimi ne ricavava delle fettine precise che andava immediatamente ad adagiare in ordine su una vaschetta. L’immagine gli fece ritornare per un attimo la calma, inducendolo a sorridere un pochino.
Anche Henry Sorton era morto sotto i suoi occhi, dopo che la musica lo aveva invitato ad andarlo a trovare nella macelleria del supermercato. L’omaccione era lì davanti a lui, dietro il banco dove stavano impilate le vaschette della carne accanto alla macchina per fare il macinato, alla segaossa e al marchingegno che serviva a coprire le confezioni con la pellicola trasparente. Il suo grembiule bianco, vasto come un tendone, era tutto spruzzato di sangue e interiora, e non riusciva nemmeno a fatica a coprire l’enorme pancia prominente del macellaio. La mole di Henry Sorton gli aveva sempre dato l’idea che fosse un buongustaio, finché suo padre non gli aveva rivelato, una sera, che in realtà era l’effetto di tutte le birre di troppo che si scolava al bar la sera.
In ogni caso, un potente assolo di batteria lo aveva portato proprio lì, davanti al banco della carne, e Henry gli aveva dedicato un ampio sorriso quando l’aveva visto arrivare. L’anno prima gli aveva dato una mano in macelleria, come lavoretto estivo, e da allora in poi Henry lo salutava sempre quando andava a trovarlo e gli concedeva qualche rara chiacchierata. Ma quel pomeriggio, vedendolo dietro il banco, aveva provato paura, perché sapeva che ogni volta che la musica lo portava da qualche parte succedeva sempre qualcosa di brutto.
Henry stava tagliando del pollo, con una grossa mannaia lucente, e il giovane non appena l’aveva visto si era subito accorto del coltello lasciato con la lama all’insù sopra il bancone, accanto a dove stava lavorando, e aveva aggrottato la fronte in segno di sorpresa, perché Henry non era tipo da non notare queste cose.
Questi affari ti fregano, non dimenticartelo. Mai lasciarne uno con la lama rivolta verso l’alto: si fingono amici, quando ti semplificano il lavoro, ma appena ti distrai non esitano un solo istante ad aprirti un bel taglio sul braccio. La lama va sempre poggiata di lato, e sempre rivolta verso la parte opposta a quella in cui stai lavorando. Ricordava quando gliel’aveva detto, non appena aveva appoggiato un coltello con la lama verso l’alto sul bancone. In quell’istante avrebbe voluto gridare al suo amico Henry che aveva dimenticato di poggiare la lama di lato, ma non ne aveva avuto il tempo.
Il macellaio si era appoggiato al bancone con il braccio per fare più forza sulla carne del pollo che stava cercando di liberare dalle ossa, e la lama del coltello rivolta verso l’alto gli era penetrata nella pelle come in un panetto di burro. Se n’era accorto quando ormai era arrivata quasi dall’altra parte, e mentre il banco e il grembiule si imbrattavano del suo sangue aveva allontanato il braccio con uno scatto deciso ed era piombato dritto contro la segaossa sbadatamente dimenticata in funzione.
Aveva gridato, affacciato al bancone, mentre sul pavimento della macelleria il sangue di Henry Sorton si mescolava a quello del pollo e i clienti accorrevano allarmati a vedere cosa fosse successo. L’ultima memoria ricollegabile a quel lontano pomeriggio era l’immagine di una moltitudine di sguardi agghiacciati che lo circondava, poi i ricordi riprendevano con il risveglio tra le coperte della sua cameretta l’indomani mattina.

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