sabato 29 settembre 2012

Mattatoio

Camminava solo per la strada. A testa alta, per la prima volta dopo tanto tempo.
Camminava sotto la pioggia, lasciandosi trascinare dalle sue stesse gambe che andavano per conto proprio.
Camminava molleggiato, con i suoi pantaloni rossi e la sua canottiera bianca, i muscoli solidi e rivestiti di tatuaggi, i rasta che gli tamburellavano piacevolmente sulla schiena sotto il frontino del berretto da baseball rovesciato all’indietro.
Camminava là fuori per la prima volta completamente solo, e ascoltava il tintinnio delle catene che portava al collo e il ticchettio della pioggia sull’asfalto e sulle pozzanghere.
La gente lo guardava. Non troppo bene, ma non gli importava un granché. Lo guardavano passare e lo guardavano male. Ma loro non potevano capire.
A dire il vero, nessuno poteva capire. Nessuno al mondo.
Cerco io stesso di capire l’uomo che sono, si ripeteva mentalmente. E intanto camminava per la strada, con gli occhiali da sole e i muscoli in vista, bagnati dalla pioggia. I tatuaggi neri sulla pelle scura, sulle braccia, sul collo, sul viso.
Si tolse gli occhiali scuri, di modo che la gente potesse vedere anche i tatuaggi che si era fatto fare sulle palpebre. Poi quelli sulle nocche delle dita, sui polsi… Accanto al metallo tintinnante dei suoi anelli e dei bracciali, che creava musica con le catene al collo e con la pioggia.
Il suo era un incedere possente. Si sentiva forte, e cosa ancora più importante si sentiva vivo.
Sorrideva al vuoto davanti a sé, a quella strada che si snodava all’infinito verso il mondo. Camminava su quella strada, in direzione dell’oceano, in direzione del nulla più assoluto.
Sei anni di galera, cazzo. Sei anni della sua vita buttati nel cesso assieme a mezzo chilo di cocaina pura, in attesa che il giudice tirasse lo sciacquone e che i poliziotti che gli avevano messo le manette addosso si spartissero il bottino sequestrato. Ma adesso era fuori, e per la prima volta camminava solo e dannatamente libero lungo una strada qualunque, verso una direzione sconosciuta.
Aveva della musica in testa, e i suoi passi ne ricalcavano il ritmo. Era un crescendo sempre più frenetico, fatto di note impalpabili, veloci, sottili e leggere. Note fantasma, in una mattinata spettrale di pioggia con le nuvole che avevano annegato il sole.
Sei anni dietro le sbarre, circondato da persone il cui unico desiderio della giornata era vedere del sangue sul pavimento della mensa o del cortile. Meglio su tutti e due, se ce n’era l’occasione.
Quanti denti aveva rotto. E quanti ematomi aveva dovuto nascondere, per evitare di scoprire un punto del quale gli altri avrebbero potuto approfittare per piegarlo e poi spezzarlo. Non l’aveva mai data vinta a nessuno di loro. Si era prolungato la pena di due anni, a furia di scazzottate. Ma quelle erano inevitabili, e comunque ne era sempre uscito vincitore. E si era guadagnato il rispetto, un valore molto importante da quelle parti. Forse l’unico che contasse davvero qualcosa fuori dal mondo reale.
Si fermò sotto un semaforo con la luce rossa accesa e si guardò intorno. Guardò l’auto di pattuglia che veniva avanti lentamente, nella sua direzione, e si fermava a pochi passi da lui. Incrociò lo sguardo del poliziotto seduto dalla parte del passeggero, e si riconobbero a vicenda.
Sorrise e dai pantaloni rossi estrasse una mitraglietta Uzi con il caricatore già inserito.
Il volto del poliziotto fu deformato da una tremenda espressione d’orrore.
Scaricò cinque colpi contro il suo finestrino, e vide schizzare il sangue all’interno dell’abitacolo. Quindi scese dal marciapiede e si spostò verso il centro della corsia, sparando altri dieci colpi al parabrezza in corrispondenza del sedile del guidatore.
Si girò dall’altra parte e vide la gente che correva e gridava. Non potevano capire. Nessuno di loro poteva, così decise di premere il grilletto ancora. E di puntare la bocca da fuoco dell’Uzi in direzione della folla urlante, esaurendo il caricatore contro bersagli mobili in fuga.
La frenesia della musica era aumentata. Il ritmo era quello di una dolce sinfonia. Gli spari, le urla, la pioggia, il tintinnio delle catene al collo, tutto faceva parte di quella musica, e stabilì di conservare l’ultimo colpo per sé. Quando fosse giunto il momento, l’avrebbe usato. Ma nel frattempo…

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