martedì 24 aprile 2012

Il Blocco dello Scrittore - Parte 1

Diciamo pure che non è una situazione molto felice, quella che si vive quando si ha un blocco. Il peggiore incubo di ogni scrittore. La condizione che tutti coloro che lavorano con le parole temono, e con la quale prima o poi devono confrontarsi in un faccia a faccia per nulla scontato. Si tratta quasi di una sorta di prova, un tetro e terrificante rito di passaggio da superare per capire quanto valore si dà all’attività svolta ogni giorno per stare bene con se stessi e liberarsi di quei tumori che sono a volte le idee. Perché le idee, o almeno quelle folgoranti, sono proprio come dei tumori, non è vero? Non puoi stare veramente bene finché l’ispirazione continua a tormentarti, a sussurrare, ad apparire e scomparire, impedendoti di dormire e, in alcuni casi, persino di respirare regolarmente.
Il dramma che Charlie viveva da almeno un paio di mesi era più o meno questo, senza troppe esagerazioni. Le notti insonni, trascorse a girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, con le palpebre che si chiudevano da sole e la mente che non voleva saperne di andare in standby, lo stavano facendo letteralmente delirare. Aveva occhiaie profonde e marcate e gli occhi perennemente arrossati, tanto che guardandosi allo specchio la mattina si rendeva conto di assomigliare sempre di più ad un eroinomane sull’orlo di una crisi d’identità.
Era passato un mese, suppergiù, dall’ultimo incontro dei suoi capelli con un pettine, e non si faceva la barba da altrettanto tempo. In fondo, tutto questo contava davvero poco. Che senso aveva sistemarsi i capelli e radersi se poi si metteva alla scrivania e non riusciva a buttare giù nemmeno uno straccio di paragrafo che avesse un minimo di senso compiuto?
Le giornate scivolavano su di lui inesorabili, e lui lasciava che slittassero via sulla sua pelle stanca mentre se ne stava con i gomiti appoggiati al ripiano della scrivania e il viso tra le mani, ad osservare il nulla buio dei suoi palmi chiusi e ad ascoltarsi respirare. La tastiera della macchina da scrivere stava incrementando considerevolmente la sua già notevole collezione di polvere, e a mano a mano che le ore uscivano dalla porta dello studio di Charlie il silenzio si faceva sempre più denso e cremoso, quasi che la sua testa si fosse isolata dal resto dell’universo e che il suo studio fosse affondato senza remore all’interno di un capiente vasetto di yogurt, scaduto ma ancora sigillato.
D’accordo, i suoni della realtà giungevano comunque alle sue orecchie, seppure ovattati. Ma Charlie galleggiava in un limbo, una specie di terra di nessuno che separava casa sua dal luogo intimo e speciale che c’era dentro la sua testa, un luogo in cui i tasti della sua macchina da scrivere non raccoglievano più polvere, ma si facevano piuttosto sgranocchiare dalla ruggine.
Una macchina da scrivere insanguinata, aveva pensato Charlie la prima volta che quest’immagine gli si era presentata dietro le palpebre mentre sognava, i gomiti saldamente piantati sul ripiano di legno della scrivania e la faccia immersa tra le mani. Sì, sembra sangue rappreso, invece è solo ruggine. Ruggine che mangia i tasti, che divora le idee, che corrode l’ispirazione.
Come poteva fermarla? Con un pizzico di fantasia, era chiaro. Solo che l’immaginazione sembrava essersi presa una vacanza, e la frustrazione che era venuta a sostituirla pareva un po’ troppo pigra e inesperta: non sapeva produrre nulla, e la parte peggiore era che non voleva produrre nulla. E, di conseguenza, Charlie non era più capace di scrivere, e ogni volta che si metteva a cercare una parola gliene veniva un’altra e alla fine della frase rimuoveva accuratamente il foglio dal carrello, rileggeva le due righe d’inchiostro asciutto, stropicciava e gettava via, laggiù sull’angolo della stanza in cui lentamente si andava ammucchiando una spaventosa catasta di carta appallottolata, fatalmente inutilizzabile.
Doveva uscirne, questa era la naturale priorità. Solo che, francamente, dubitava di essere ancora in grado di scrivere. Aveva perso il talento, ormai l’aveva capito. Se n’era andato, come uno stormo di rondini quando arrivano le prime avvisaglie dell’autunno incombente, e lui non poteva fare assolutamente nulla per convincere le idee svolazzanti che popolavano la sua testa a sospendere la migrazione in corso. Semplicemente, per lui il viaggio si concludeva qui.
Si alzò dalla sua poltrona sgualcita e misurò a passi nervosi la distanza che lo separava dalla porta dello studio. La penombra gli impediva di distinguere appieno le sagome delle pareti, ma poco importava: non era sua intenzione vederle. Aveva scrupolosamente provveduto ad eliminare ogni fonte di distrazione: niente mobili, niente quadri, niente finestre, niente radio o televisore, niente telefono, niente libri. La stanza era spoglia e scura, con la scrivania addossata ad una parete intonacata di bianco. Il ripiano era sgombro, e tutti i fogli e gli appunti erano stati sigillati nell’apposito cassetto. Restavano solo la macchina da scrivere, con un pacco appena aperto di carta vergine accanto, e la lampada da tavolo la cui pozza di luce permetteva di scorgere i tasti. Nient’altro. Eppure, ancora non bastava.
No, non bastava, perché la bottega delle idee aveva chiuso i battenti e la fucina delle parole aveva esaurito le scorte di materia grezza da lavorare, perciò lui si lasciava trascinare dai sogni ad occhi aperti che lo coglievano nei momenti più inaspettati e quando si risvegliava tutto quello che gli rimaneva erano un foglio appallottolato e gli occhi incrostati.
Ma dormire sulla scrivania non lo aiutava, e il riposo di quei pochi minuti solitari, avvolto nel chiaroscuro dello studio, non era sufficiente a farlo stare meglio. Non erano pause ristoratrici. Anzi, al contrario: lo rendevano ancora più esausto e frustrato, e questo non gli dava certamente una mano a scrivere qualcosa di buono. Se solo avesse avuto uno straccio di idea o fosse riuscito a mettere nero su bianco un pezzetto di pensiero che non fosse del tutto sconclusionato… Ma niente, non c’era tregua a quell’agonia ormai da oltre sessanta giorni, e Charlie cominciava a pensare che forse avrebbe fatto meglio a chiudere la porta dello studio, comprarsi dei biglietti aerei e prendersi una vacanza con la moglie e la figlia. Una vacanza, già, esattamente come aveva deciso di fare la sua immaginazione di punto in bianco, senza neanche prendersi la briga di consultarlo.
Sì, forse è proprio di distrazione che ho bisogno. Di rinfocolare un po’ i pensieri, di smuovermi la mente e di far fluire dentro la testa qualche nuova esperienza. Magari, chissà, poteva addirittura funzionare.
Si massaggiò cautamente le tempie con l’indice e il pollice della mano destra, tenendo gli occhi socchiusi e tornando a sogguardare con timidezza la sua macchina da scrivere ammantata dalla pozza di luce giallognola della lampada. Una luce malaticcia, rifletté Charlie tra sé e sé. Forse anche un po’ spiacevole, e magari era per questo che non riusciva a concentrarsi.
Lasciò perdere il fugace proposito di prendersi qualche giorno di ferie e si avvicinò alla parete alla quale era appoggiata la scrivania, cercando a tentoni la presa della corrente alcuni centimetri sopra il bordo del battiscopa e localizzandola con le punte delle dita, afferrando la spina della lampada da tavolo e rimuovendola con uno strattone deciso.
La pozza di luce malaticcia scomparve, inghiottita dalla famelica bocca di un mostro fatto di tenebre rafferme.
Bene, così va meglio, si disse Charlie riprendendo posto sulla sua vecchia poltrona ancora tiepida. Ma anche la poltrona è poco confortevole. Forse…
Sì, tutto sommato aveva ragione anche su questo punto: meglio levarla di mezzo, quella poltrona sfinita, e sostituirla con una delle sedie giù in cucina, più comode e funzionali. In fondo, non avrebbe fatto alcuna differenza. E se fosse servito a richiamare le idee e la concentrazione, magari prima di sera avrebbe anche buttato giù una pagina o due.
Falso ottimista, si rimproverò afferrando lo schienale della poltrona e spostandolo all’indietro, sbuffando per la fatica ma riuscendo a guadagnare qualche metro in direzione della porta, trascinando e trascinandosi sul parquet divenuto ruvido per effetto degli anni che arrancavano.
Niente luce e niente poltrona, concluse dopo aver lasciato quest’ultima al di là della soglia ed essersi richiuso la porta alle spalle. Tuttavia, ancora non si sentiva del tutto pronto a cominciare. C’era qualcos’altro che stonava, lì dentro, era poco ma sicuro.
Nell’oscurità del suo studio, Charlie si avvicinò di soppiatto alla scrivania, come ad un’amante vogliosa sdraiata sul letto, e sollevò la macchina da scrivere. Era pesante, ma ce la faceva a tenerla su. Si mosse verso il centro della stanza e finalmente posò per terra il suo strumento di lavoro. Adesso, non gli rimaneva che portare fuori di lì quell’antiquata scrivania. Un mobile inutile, che contribuiva a distrarlo. Ma da quel giorno in poi non gli sarebbe più stata tra i piedi.
Qualcuno bussò sommessamente alla porta, e Charlie trasalì. Chi era venuto a disturbarlo a quell’ora del pomeriggio? Chi si permetteva di trasformarsi in un ulteriore motivo di distrazione per la sua mente già di per sé deconcentrata e affaticata?
«Chi è?» sbraitò, accorgendosi solo superficialmente del tono di voce seccato ed eccessivamente alto. La porta si aprì, consentendo ad uno spiraglio di luce solare di ferirgli gli occhi.
«Sono io, tesoro…» mormorò sua moglie Debbie mostrandosi timidamente oltre la soglia, infilando la testa nello studio buio e profanando così il suo tempio di creazione. Charlie sbuffò e le rivolse uno sguardo annoiato. «Scusa se ti rompo, ma ho sentito dei rumori. Come mai hai portato fuori la poltrona?»
«Per lo stesso motivo per cui adesso porterò fuori anche la scrivania, Debbie: mi distraggono» spiegò con impazienza Charlie, squadrandola con fare ostile. «E anche tu non sei da meno, in questo momento. Lo sai che sto lavorando. Perché vieni qui se sai che sono impegnato a scrivere?»
Debbie si ritrasse, quasi involontariamente, e si mostrò mortificata. «Credevo che avessi bisogno d’aiuto. Scusa, se non ti vedo e non ti sento mai in queste ultime settimane» replicò, lasciando intuire che le parole del marito l’avevano offesa.
Charlie non se ne curò ed emise una risatina sarcastica. «E per cosa credi che non mi faccia vedere né sentire, Debbie? Perché ho bisogno di scrivere, e tu ed Erika siete soltanto una distrazione!»
«Una distrazione? Siamo soltanto una distrazione?» alzò la voce Debbie, forse per la prima volta da quando Charlie aveva memoria. Si rese subito conto di aver scelto male le parole. Ma che cosa ci poteva fare? Erano due mesi che continuava a scegliere male le parole, tutte le parole, e anche stavolta era riuscito a fallire miseramente. La cosa lo fece infuriare ancora di più, e l’ira crebbe dentro di lui come l’impasto di una torta infilato nel forno con una bustina di lievito di troppo.
«Siamo tua moglie e tua figlia, Charlie!» esclamò alterata Debbie, portandosi le mani sui fianchi e protendendosi in avanti come sempre faceva quando aveva bisogno di sfogarsi. «Tua moglie e tua figlia, e non ci puoi trattare come questa dannatissima poltrona o come quella vecchia scrivania consumata! Ho diritto anch’io ad avere un marito che sia presente e che mi aiuti in casa, invece te ne stai chiuso qui dentro ed esci solo per mangiare e dormire! Le tue storie ti rendono più felice della tua famiglia, Charlie? È così?»
Charlie rimase paralizzato, a bocca asciutta. Era la prima volta che sua moglie lo rimproverava per il fatto che passava poco tempo con lei ed Erika, e la cosa lo spiazzò. Restò fermo, immobile, senza sapere che cosa rispondere. Percepiva i secondi che gli cadevano sulla pelle come una spiaggia di granelli di sabbia e lo sguardo infuocato di Debbie piantato nei suoi occhi lo faceva sentire debole e stupido. Non andava bene. Non poteva trattarlo così. Non era giusto, maledizione, non era giusto che sua moglie lo trattasse in questa maniera. Non poteva capire, ecco dove stava il problema! Debbie non poteva capire che cosa provasse, come si sentisse ora che quel blocco lo stava paralizzando e strangolando senza traccia di misericordia. Tutto questo non era affatto giusto.
«Quanto poco mi conosci, Debbie. Lo sai benissimo che cosa rappresentano per me i miei racconti. Senza scrivere non mi posso liberare degli incubi, capisci?» berciò Charlie, con un tono di voce più secco e ruvido di quello che avrebbe preferito adoperare.
Debbie sgranò gli occhi, puntandogli contro il dito con aria minacciosa. «Gli incubi, sempre con questi incubi! Ma dove sono gli incubi, Charlie? La vita con te sta diventando un incubo. Passi le tue giornate qui dentro, a stento parli con tua figlia o ti lavi, non ti tagli la barba da settimane… Perché? Che cosa c’è che non va, in te?»
«Non c’è niente che non va in me!» le gridò in faccia Charlie, inviperito. «L’unica cosa che non va, qui, è tutta la gente che mi distrae e mi viene a fare prediche inutili mentre sto lavorando!»
Sbatté la porta con rabbia in faccia a sua moglie e si lasciò scivolare a terra, sedendosi sul pavimento accanto alla macchina da scrivere. Udì un lamento soffuso dall’altra parte dell’uscio, assieme ad un paio di singhiozzi trattenuti. Debbie stava piangendo.
Oddio, l’ho fatta piangere. Ecco. Soddisfatto? Ma almeno così non verrà più a disturbarmi per un po’. E intanto quei tasti prendono la polvere e io non riesco a premerli, maledizione!
Si isolò di nuovo, e nella sua testa il pianto smorzato di Debbie dall’altra parte della porta si ammutolì di colpo, lasciando spazio all’insistente ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere che in realtà stava congelata sotto il suo sguardo, troppo distante dalle sue dita per farsi toccare, morta e fredda, una macchina da scrivere ormai cadavere.
E adesso come faccio a farla tornare in vita? Come faccio risorgere le idee defunte, per rimettermi a scrivere come facevo prima che questo tremendo blocco mi assalisse? Come, dannazione, come? Aprirmi le vene su questa macchina da scrivere servirà a qualcosa? Perché se funzionasse sarei anche disposto a provarci!
Seduto sul pavimento a gambe incrociate, finse che Debbie non stesse piangendo e che l’ispirazione fosse improvvisamente tornata, e intanto tre lacrime gli scorrevano silenziose sul viso: una per sua moglie, una per sua figlia e una per il blocco dello scrittore che lo teneva in scacco.

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