sabato 31 marzo 2012

Sul campo di battaglia

Vi sono sostanzialmente due prese di posizione nei confronti della guerra da parte di chi la combatte: c’è infatti chi prendendovi parte finisce per odiarla sotto ogni aspetto ad essa legato, condannando severamente ogni forma di conflitto per via delle amare conseguenze che inevitabilmente scatena, e chi invece arriva ad essere addirittura esaltato dalla battaglia, al punto tale da giungere a disprezzare profondamente non soltanto la vita altrui, ma persino la propria.
Coloro che prendendo parte alla guerra finiscono per odiarla rappresentano quella fascia di combattenti, volontari o non, che durante uno scontro analizzano attentamente gli effetti che esso produce negli altri, specialmente negli innocenti che da spettatori vengono spesso tramutati in vittime, e giungono a maturare una stima dei danni valutando il «costo in termini di sofferenza umana e di distruzione sociale» che a detta di Margaret Mead, antropologa statunitense autrice di “Antropologia”, dovrebbe far percepire alla gente «l’inadeguatezza della guerra come istituzione sociale». Questi soldati, nella maggior parte dei casi, si ritrovano ad essere coinvolti in una guerra senza avere avuto il tempo di rendersene conto, e soltanto quando è ormai troppo tardi ne realizzano i contorni brutali e l’apparente insensatezza.
Ne è un esempio l’esclamazione pronunciata da Robert Lewis, capitano e copilota dell’aereo “Enola Gay”, il 6 agosto 1945, subito dopo aver assistito alla devastante esplosione della bomba atomica che lui e i suoi compagni avevano appena sganciato sulla città di Hiroshima, in Giappone: «Mio Dio, che cosa abbiamo fatto!» mormorò, prendendo solo in quel momento piena coscienza dell’atto compiuto. Questo atteggiamento di disgusto verso la guerra è espresso anche da un’affermazione attribuita allo scrittore Mario Rigoni Stern nel corso di un’intervista al programma “Che tempo che fa” di Rai Tre, nel 2006: «Non ho mai ucciso per uccidere. Ho ucciso per tornare a casa, e per salvare i miei compagni» racconta ricordando gli eventi a cui ha preso parte da alpino nella Prima Guerra Mondiale. Anche Ungaretti si trova sulla stessa linea di pensiero, come si può ben intuire attraverso la lettura di molte delle sue poesie, tra le quali spicca in maniera preponderante “San Martino del Carso”, del 1916.
In definitiva, la riflessione che contraddistingue questo primo atteggiamento si trova condensata in una nota sentenza del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy: «L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità».
Esiste poi un’altra reazione, diametralmente opposta, che è quella che scaturisce nei combattenti esaltati dalla guerra, coloro che la elevano ad unica soluzione auspicabile e la trasformano in una mera catena di azioni empie, spesso così storditi dall’alcool e dalle droghe da non accorgersi di aver sparato ad una donna con un bambino invece che ad un soldato della fazione avversa.
Gli eccessi e le esagerazioni, nelle guerre antiche come in quelle moderne, ci sono sempre stati: stragi di innocenti, esecuzioni di massa, saccheggi ripetutamente perpetrati e stupri sono solo alcuni degli effetti “collaterali” di un conflitto, che non hanno nulla a che vedere con le motivazioni dello scontro in sé. L’esempio forse più sconcertante di questa disumana barbarie è il video trapelato nell’aprile 2010 sul sito “Wikileaks”, dove di recente sono stati pubblicati centinaia di migliaia di documenti segreti riguardanti diversi governi: il video in questione, della durata complessiva di circa quaranta minuti, è un filmato “classificato” che riprende dalla cabina di un elicottero americano l’attacco ai danni di un gruppo di dodici civili in Iraq da parte di due velivoli statunitensi; l’audio riporta fedelmente lo scambio di battute tra i soldati mentre fanno fuoco sul gruppetto di civili disarmati, in mezzo ai quali compaiono anche due bambini.
Ulteriore prova di questa presa di posizione favorevole alla guerra e di disprezzo nei confronti della vita è riscontrabile nell’arringa di Annibale alle proprie truppe durante la Seconda Guerra Punica, prima di uno scontro con i Romani, tramandata da Tito Livio nel suo “Ab urbe condita”: «Nessuna arma gli dèi immortali hanno dato all’uomo, per la vittoria, più acuta del disprezzo della vita» sostiene il condottiero cartaginese, riferendosi non solo alla vita dei nemici, ma anche alla propria e a quella dei propri uomini.
L’unica percezione comune a tutti i soldati che prendono parte ad un combattimento, però, è la sensazione che la guerra non potrà mai veramente concludersi in maniera definitiva, e questa quasi certezza è perfettamente compendiata da Platone quando asserisce: «Solo i morti hanno visto la fine della guerra».

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