lunedì 19 marzo 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 28 - Progetti

Stan Payton uscì all’aperto per prendere una boccata d’aria e squadrò rapidamente i contorni scuri del quartiere, passando in rassegna i profili degli edifici bui e proseguendo nelle tenebre, fino al punto in cui Main Street scompariva in un oceano nero sul quale sarebbe stato impossibile navigare.
Era tutto calmo, lì fuori. Come se il mondo fosse finito e lui fosse precipitato in una bizzarra realtà post apocalittica. L’aria era rarefatta, immobile, gli unici rumori percepibili erano i fruscii di movimenti poco sospetti che provenivano da lontano. Non dovevano essere automobili, valutò Stan, perché di benzina non ce n’era più. E probabilmente non erano neppure fontane, perché l’acquedotto non portava più acqua ad Eglon, e nemmeno il ronzio dei lampioni perché l’erogazione di elettricità era stata bruscamente interrotta. Per tutti questi motivi, quei fruscii non parevano essere provocati da esseri umani, il che rendeva l’ambiente ancora più morto e desolato agli occhi di Stan.
Respirò profondamente e sondò ancora una volta lo scenario circostante. Ci dovevano essere sicuramente delle persone, lì da qualche parte. I rivoluzionari, per esempio, che ogni notte pattugliavano scrupolosamente le strade. Oppure qualche cittadino uscito a fumare o a portare a spasso il cane. Era impossibile che lui fosse l’unico fuori casa, in una città di quarantamila abitanti!
Sospirò e lasciò perdere. La pistola gli premeva ancora contro il fianco, implacabile, come un tizzone rovente infilato nella tasca dei pantaloni. Non poteva gridare. Non poteva buttare fuori tutta la tensione che si era accumulata dentro di lui in quelle ultime ore, perché altrimenti sarebbe successo il finimondo. Nessuno doveva sapere che quella pistola era ancora nascosta nei suoi pantaloni. Perché se i ribelli lo avessero saputo… anzi no, meglio ancora, se Sarah lo avesse saputo, allora lui avrebbe dovuto incominciare a temere seriamente per la propria incolumità.
Erano andati tutti a dormire, ma malgrado la stanchezza Stan non era ancora riuscito a prendere sonno. Forse perché il rapporto tra lui e il suo vecchio divano non si era ancora ricucito a sufficienza. Più probabilmente perché aveva un sacco di cose per la testa a cui pensare, prima fra tutte la riunione di quella mattina nel covo segreto di Joey Goode. Gli elementi più importanti della controrivoluzione si trovavano là dentro con lui, in quell’occasione, e aveva avuto modo di conoscerli, di studiarli e di scegliere da quale parte stare. Ma la situazione non era delle più felici, e Stan se ne rendeva conto. C’era mancato poco che non scoppiasse una guerra civile in scala ridotta, all’interno di quel salone: era una fortuna che nessuno fosse passato alle mani, e che la soluzione finale fosse stata individuata in maniera pacifica.
Adesso, la chiave di tutta l’operazione era riuscire a localizzare uno dei jammer di cui aveva parlato quella mattina. Sperava di non sbagliarsi. Sperava che Robert sapesse il fatto suo, e che i loro nuovi amici poliziotti non passassero dei guai per colpa di una supposizione infondata. Ma, d’altro canto, a questo punto occorreva rischiare. Non c’erano garanzie di vittoria, ma la posta in gioco era davvero alta e bisognava agire al meglio. Le sorti di Eglon e dei suoi abitanti dipendevano da un pugno di uomini e da un’idea. Sperava con tutto il cuore che l’intuizione si rivelasse esatta.
Un fruscio più forte degli altri, alla sua destra, crebbe improvvisamente d’intensità. Stan girò la testa in quella direzione e intravide nell’oscurità la sagoma nera di una vettura che procedeva con i fari spenti. L’automobile lo superò piano e tutto d’un tratto si bloccò in mezzo alla strada. La portiera del passeggero si aprì e il vicesceriffo Steve Corall buttò fuori un’occhiata per accertarsi che la zona fosse pulita. Jeff Turner si affrettò a compiere una manovra di parcheggio sbrigativa e scese assieme al poliziotto, incamminandosi verso Stan che li guardava avanzare con il cuore in gola.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 28
PROGETTI

Joey si abbandonò sfinito tra le lenzuola, stendendosi accanto ad Emily con il respiro ancora affannato. La donna gli rivolse un sorriso capace di esprimere tutta la sua intima complicità e, senza dire nulla, si alzò e si avviò nuda in direzione della porta del bagno, lasciandolo imbambolato a fissare i suoi fianchi e il suo sedere che se ne andavano con grazia.
L’uomo sospirò con un sogghigno inebetito sulla faccia e chiuse gli occhi felice. Si sentiva stanco, ma incredibilmente soddisfatto e rilassato. Tutto il suo corpo, dalle punte dei capelli in giù, lo ringraziava per l’inimmaginabile stato di benessere in cui era affondato. Era da un bel pezzo che non si sentiva così bene dopo aver fatto l’amore con una donna. E ora poteva affermare con una certa sicurezza, dopo il terzo round di fila, che questo era decisamente merito di Emily.
Si sporse sul comodino e frugò nel primo cassetto alla ricerca del suo pacchetto di sigarette. Lo trovò quasi subito e lo estrasse con calma, prelevando una Lucky Strike e un fiammifero. Ci ripensò e raccolse dal pacchetto un’altra sigaretta prima di gettarlo nuovamente nell’oscurità del cassetto.
Emily ricomparve dalla porta del bagno e sgattaiolò da lui, infilandosi sotto le lenzuola e cercando il suo tepore per scaldarsi il corpo nudo. Joey la accolse volentieri tra le proprie braccia e le offrì la seconda sigaretta, che lei accettò di buon grado.
Iniziarono a fumare in silenzio, con i visi a malapena illuminati dalle candele allineate sulla scrivania addossata alla parete. La notte aveva finalmente mostrato il suo cuore al mondo, e presto avrebbe incominciato a ricoprirsi e a raccogliere armi e bagagli per rimettersi in marcia e allontanarsi dal sole. La città di Eglon giaceva nel sonno, ma probabilmente da qualche parte si stavano verificando nuovi eventi che avrebbero rimescolato ancora una volta le carte in tavola.
Nonostante la condizione di estatico appagamento nella quale galleggiava, Joey non poté evitarsi di pensare a Jeff Turner e Steve Corall che aveva mandato fuori a pedinare i furgoncini dei ribelli in partenza dalla stazione ferroviaria. Le informazioni che Emily gli aveva portato avevano un valore enorme, ma gliene occorrevano altre. Se quelle batterie erano realmente destinate all’uso che aveva ipotizzato, sicuramente avrebbe fatto loro comodo sapere in quali punti della città sarebbero state dislocate.
«A che cosa stai pensando?» gli chiese Emily in un sussurro, levandosi dalle labbra il mozzicone di sigaretta ormai consumato.
Joey si volse a guardarla negli occhi e si sentì crescere dentro il desiderio di fare ancora l’amore con lei. Era impossibile arginare la voglia che lo sguardo di Emily gli metteva addosso, e dovette fare uno sforzo per non tirarla a sé e ricominciare da dove si erano interrotti poco fa.
«Troppe cose, tutte assieme» confessò, finendo la propria sigaretta e lanciando sul ripiano della scrivania il filtro bruciacchiato.
«Sei preoccupato per gli uomini che hai mandato fuori?»
«No, loro se la caveranno. È la città che mi preoccupa…»
«E perché mai?» volle sapere Emily, incuriosita.
«Non so se la gente riuscirà a sopportare gli avvenimenti dei prossimi giorni. Temo arriveremo a commettere azioni di guerriglia in pieno giorno, con sparatorie lungo le strade e morti in crescita. Voglio evitare tutto questo, ma allo stesso tempo ho paura che non sarà possibile.»
«Credi che ci sarà bisogno di combattere?»
Joey rifletté un istante. Quindi annuì. «Più che crederlo, lo so per certo. L’alleanza tra i ribelli e il sindaco è molto pericolosa, e Green potrebbe riuscire a portare dalla sua parte una fetta consistente della popolazione. Dobbiamo fermarlo in tempo, prima che combini un macello.»
«Che cosa hai in mente di fare?» domandò la donna, scossa.
«Un attentato coi fiocchi, in risposta al loro: anche se il resto del gruppo rema contro questo mio proposito, ho intenzione di eliminare il sindaco Green dall’equazione.»

Jeremy Barton, quella mattina, si svegliò di soprassalto con il volto bagnato. Aveva sognato di immergersi in una vasca da bagno, convinto di trovare l’acqua tiepida, e invece era stato come precipitare in uno stagno ghiacciato agli inizi di gennaio. Aprì gli occhi e si rese conto che stava piovendo, e che il vento soffiava talmente forte da far entrare l’acqua attraverso la finestra aperta in direzione della sua faccia.
Si ritirò di qualche metro e si mise a sedere nel buio, guardandosi rapidamente attorno e riconoscendo gli altri poliziotti che dormivano nel salone. Aveva i brividi di freddo, scoprì, e anche gli altri sembravano dormire sonni poco tranquilli. L’inverno si avvicinava, e le temperature stavano scendendo implacabilmente. Qualche giorno ancora e forse non avrebbero più potuto riposare in quella vecchia fabbrica abbandonata senza finestre: presto poteva rivelarsi necessario un nuovo rifugio nel quale nascondersi.
Fuori le prime luci dell’alba stavano cominciando a farsi spazio nel cielo annuvolato, ammorbidite e attenuate dalla spessa coperta di nubi che avvolgeva Eglon alla stregua di un sudario. L’acquazzone era davvero violento, e il tratto di pavimento sul quale aveva dormito fino a pochi secondi prima si era ormai trasformato in una pozzanghera melmosa.
Si levò di dosso la trapunta fradicia che gli aveva tenuto compagnia per tutta la notte e si avvicinò con circospezione a Phil, che lo fissava con gli occhi spalancati. Gli fece segno di seguirlo di là e il collega annuì in silenzio, alzandosi e raggiungendolo nella stanza attigua a quella che avevano adibito a dormitorio.
«Come va, Gary?» domandò Phil al poliziotto appostato dietro l’apertura della finestra, parlando piano per non svegliare gli amici addormentati nel salone accanto.
«Tutto in ordine, finora. I turni sono stati rispettati senza sgarri stanotte» lo tranquillizzò Gary, con le borse sotto gli occhi. Altri tre poliziotti erano stati posizionati come lui nei punti strategici dai quali si potevano tenere sotto controllo gli ingressi della fabbrica. I turni si alternavano ogni due ore per tutta la notte e ogni quattro durante il giorno.
«Molto bene» approvò Phil, compiaciuto. «Il vicesceriffo dorme ancora?»
«Non l’ho visto alzarsi» confermò Gary, trattenendo uno starnuto. «In compenso, Brian si è tirato su due ore fa ed è andato a tenere compagnia a Stuart.»
Jeremy fece mente locale e ricordò che Stuart, nell’ultimo turno di quella notte, era preposto alla sorveglianza del pianterreno, accanto all’ingresso. Ringraziò Gary e fece cenno a Phil di seguirlo. Aveva bisogno di parlare con Brian Jones, perché bisognava decidere come muoversi per individuare gli apparecchi di disturbo del segnale. Siccome l’altro agente dell’FBI, Greg Donington, era ritornato a casa dalla sua famiglia, Brian era senz’altro il più indicato tra loro a prendere questo genere di iniziative. Spettava a lui, a questo punto, esporre il piano d’azione.
Scesero e raggiunsero il pianterreno in un lampo. Stuart, accucciato di fianco alla finestra più vicina all’ingresso, scrutava l’esterno con fare maniacale, quasi che cercasse di distinguere meglio la forma di un lupo mannaro o quella di una ragazza nuda a cento metri di distanza.
«Ciao, Stu. Hai visto Brian?» s’informò Jeremy, notando che il poliziotto era solo.
Stuart si girò a guardarli con fare spaesato, quasi che improvvisamente gli fosse stato richiesto di operare un calcolo impossibile con un fucile puntato in mezzo agli occhi. Inghiottì a vuoto e scosse il capo, quasi spaventato; poi ci ripensò e annuì: «Sì, sì. È andato di là, ha detto che voleva controllare anche lui il cancello della fabbrica da una visuale diversa.»
Jeremy e Phil ringraziarono e si spostarono nella stanza indicata da Stuart. Il primo a varcare la soglia fu Jeremy. Non appena i suoi occhi ebbero spazzolato l’intero ambiente, si rese conto che qualcosa non andava: non c’era traccia di Brian Jones, lì dentro. Nemmeno l’ombra. E non c’era nemmeno un’apertura che potesse condurre verso un’altra stanza, il che significava che Brian doveva essere uscito da una delle finestre aperte. A meno che Stuart non si fosse distratto.
«Dov’è?» chiese Phil, vagamente inquieto.
«Non ne ho la più pallida idea» ammise Jeremy, mantenendo la calma. Era tutto sotto controllo. Brian poteva essere uscito a pisciare, per esempio, oppure era andato da qualche parte a sgranchirsi le gambe e Stu non se n’era accorto. Non c’era da preoccuparsi, per una cazzata del genere. Eppure, avvertiva distintamente dentro di sé una strana sensazione…
Misurando i passi con parsimonia, Jeremy si avvicinò alla finestra della sala e gettò fuori lo sguardo, sentendosi accapponare la pelle. Brian Jones era lì, immobile sotto la pioggia, la schiena appiccicata alla parete esterna, con il telefonino appoggiato all’orecchio. Le sue labbra si muovevano, e questo poteva dire solamente una cosa: stava parlando con qualcuno. In una città in cui ogni mezzo di comunicazione con l’esterno era stato messo a tacere, Brian Jones parlava al cellulare come se niente fosse. E Jeremy si sentì sgretolare l’intera fabbrica sotto i piedi.
Brian sollevò gli occhi e li vide. Non sembrò spaventato. Neanche per un attimo. Si limitò ad abbassare il telefonino e a riporlo nella tasca dei pantaloni con un gesto del tutto naturale, come se stesse facendo quello che i due poliziotti al di là della finestra si aspettavano facesse.
Si avvicinò con il sorriso stampato in faccia e scavalcò l’apertura sulla parete con agilità, costringendo i poliziotti a spostarsi per lasciarlo passare. Una volta dentro, li squadrò con aria interrogativa e bisbigliò: «C’è qualcosa che non va?»
Phil lanciò un’occhiata diffidente a Jeremy, che fissò cupo l’agente dell’FBI e senza tanti preamboli mormorò: «Con chi stavi parlando?»
Brian osservò le loro espressioni contratte, finse sorpresa e si mise a sghignazzare divertito, massaggiandosi i polsi. «Parlando? Non parlavo con nessuno, non c’è campo!»
«Non prenderci per il culo. Ti abbiamo visto parlare, dannazione!» alzò la voce Jeremy, portando la mano sull’impugnatura della pistola nascosta sotto la maglia.
«Mi pare logico: stavo parlando, infatti. Ma non con qualcuno. Stavo semplicemente registrando un promemoria!»
Jeremy, spiazzato, non spostò la mano dall’arma. Phil lo imitò, dubbioso, e restò paralizzato a seguire lo scambio di battute, pronto ad intervenire nel caso in cui Brian si fosse dimostrato ostile.
Ma Brian ripescò il telefonino dalla tasca dei pantaloni, armeggiò un attimo con i pulsanti e dopo aver conficcato gli occhi in quelli di Jeremy premette un tasto che fece uscire dall’apparecchio la sua voce sintetizzata: «Penso sia meglio posizionare un altro uomo all’ultimo piano. Il cancello è ben coperto, dai quattro punti di osservazione, ma ho notato uno squarcio lungo l’inferriata a qualche metro dall’ingresso principale. Un’ansa del muro copre quella sezione, e anche se è piccola conviene tenerla d’occhio.» La registrazione si interrompeva subito dopo queste poche parole. Il fruscio di sottofondo, simile allo scrosciare della pioggia, confermava la versione dell’agente.
Jeremy spostò la mano dal calcio della pistola, con fare un po’ imbarazzato. «Scusami, amico» barbugliò impacciato.
«Figurati. La prudenza non è mai troppa. Solo che dovreste fidarvi di me.»
«Lo so. Mi spiace, è stato un momento di debolezza.»
«Lo immagino. Questo brutto tempo non mette di certo il buonumore» considerò Brian, e tornò a sorridere indifferente spostandosi verso l’ingresso custodito da Stuart.
«Ragazzi, abbiamo un problema…» li avvisò quest’ultimo, in tono ansioso, e i tre si affrettarono a raggiungerlo e a seguire il suo sguardo. Stuart guardava fuori, in direzione del cancello semiaperto della fabbrica. La silhouette di un uomo avvolto in un impermeabile lo stava oltrepassando senza fretta, proseguendo verso l’ingresso della costruzione a passo sicuro.
Phil e Brian spianarono le pistole con un gesto fluido e Stuart si piazzò dietro il mirino del suo fucile. La figura in avvicinamento non diede segno di esitazione. Forse perché non li aveva ancora visti, valutò Jeremy, ma tenne questa considerazione per sé. Era strano che un ribelle si muovesse da solo, apparentemente disarmato, all’interno del perimetro di una fabbrica abbandonata. A meno che non gli fosse giunta all’orecchio qualche segnalazione, era illogico pensare che stesse venendo a cercare qualcuno. Soprattutto, che venisse a cercare proprio loro.
«Vedete la maschera?» domandò Phil, stringendo gli occhi. Era difficile mettere a fuoco in mezzo a quel violento nubifragio, specialmente a causa del forte vento che muoveva le gocce di pioggia in ogni direzione.
«Nessuna maschera in vista. Siamo sicuri che sia un ribelle?» domandò Brian, sospettoso.
«Prima sparo, poi faccio le domande. Non voglio buscarmi una pallottola per un attimo di indecisione» replicò freddamente Stuart, rimuovendo la sicura dal suo fucile puntato.
«Fermi! Fermi, lo riconosco!» intervenne Jeremy, sentendosi finalmente abbastanza convinto. «Quello lì è Stan!»

«Ascoltami molto bene, perché non riformulerò la domanda: chi era l’uomo che stamattina mi hai fatto gettare nell’inceneritore?» pronunciò Gerald McGale sottovoce, premendo la bocca da fuoco della pistola sulla superficie della maschera del suo interlocutore.
«Erano tre uomini, amico» lo corresse Maschera Blu, in un tono di voce talmente controllato da dare sui nervi a Gerald.
«Sai benissimo a quale dei tre mi sto riferendo. Il pilota del Black Hawk abbattuto la notte dell’attacco. Quell’uomo, maledizione!»
«Che cosa vuoi sapere? Nome e cognome? Data di nascita? Città di provenienza? Non fa alcuna differenza…» ribatté Maschera Blu, il biglietto prelevato dal vagone quattro ancora stretto tra le dita contratte.
«Era veramente un soldato dell’esercito americano?» insistette Gerald, risoluto.
«Lo era stato, se è questo che intendi. Fino a due anni fa, più o meno. Si chiamava Larry Gallagher e pilotava elicotteri da sempre. Quello che manovrava la notte in questione era il primo Black Hawk della sua vita. Per questo si è fatto beccare. Non era previsto che il suo velivolo venisse abbattuto…»
«Vuoi dire che era uno dei nostri?» chiese Gerald allibito, con voce tremante.
«Ehi, che ti aspettavi? Credevi forse che questa rivoluzione sarebbe stata portata avanti senza sacrifici e senza vittime? Abbiamo dovuto spargere parecchio sangue, finora. Ma devi capire che è soltanto l’inizio. Quando avvieremo la Fase Due…»
«Non ci sarà nessuna Fase Due, amico. Non per me. Chiamami fuori» replicò in tono secco Gerald, mostrandosi deciso.
Maschera Blu sospirò tristemente. «Peccato. Eri un buon elemento. Dovrò perdere del tempo prezioso, per rimpiazzarti. Ma finirai anche tu dentro quell’inceneritore, prima dell’alba. Non sarà piacevole, ma i sacrifici sono necessari.»
Uno scatto metallico e la pistola di Maschera Blu, apparsa all’improvviso nella sua mano libera, era armata e appoggiata al fianco scoperto di Gerald.
«Così, ucciderai anche me?»
«Devi capire che non posso lasciarti uscire di qui vivo, Gerald» rispose Maschera Blu.
L’altro trasalì. «Come sai il mio nome?»
«Conosco i nomi di tutti i membri della mia squadra. E conosco anche il vostro passato, il vostro presente e il vostro futuro. Le vostre motivazioni, i vostri peccatucci, le vostre preoccupazioni. Siete libri aperti, per me. Sono stato addestrato a conoscere i miei uomini, amico.»
«Allora il regolamento è tutto una farsa!»
«Non per voi. Voi dovete rispettarlo. Ma per i capigruppo la questione è diversa. Abbiamo il dovere di padroneggiare la situazione, Gerald. In qualsiasi circostanza.»
«Come hai ucciso il pilota?»
«Eri talmente distratto che non ti sei nemmeno accorto dello spillo che gli ho sparato nel cuore. È bastato premere un pulsante sul mio orologio da polso, e quel bastardo ha smesso di vivere. Le armi tecnologiche sono potenti, ma quelle tradizionali continuano ad avere effetto quando ce n’è bisogno.»
«E adesso farai fuori anche me? Soltanto perché ho deciso di abbandonare la partita?»
Maschera Blu sghignazzò, e la sua risatina fu tremendamente macabra. «Non si può tornare indietro, Gerald. Quella mattina, poche settimane fa, ti è stato chiesto di farne parte. Sapevi che non ti saresti potuto ritirare, e hai accettato comunque. Da quel momento in poi, o avanti o sotto terra.»
Le due pistole fremevano nelle loro mani, quasi che si fossero temporaneamente impossessate di un alito di vita propria. Erano impazienti di sputare la loro saliva di piombo sui rispettivi avversari, eppure le dita dei loro proprietari ancora esitavano. I ribelli all’ingresso della stazione ferroviaria non si erano accorti di nulla, e probabilmente era meglio così.
«Non posso credere che tu abbia smesso di avere fiducia negli ideali della rivoluzione, Gerald» riprese Maschera Blu dopo qualche momento d’indugio. La sua voce era ancora ferma, solida, come una statua di marmo al centro di una piazza infuocata.
«Infatti condivido ancora quegli ideali. Ma ho smesso di avere fiducia nei modi che avete scelto. Bombardare la città in piena notte, all’improvviso… Solo per indurre la gente ad avere paura dell’esercito e ad affidarsi a voi!»
«Dovevamo pure comprarci la loro collaborazione, in qualche modo. La distribuzione del cibo, dei medicinali, dell’acqua e dei carburanti contribuirà a rendere la popolazione ancora più mansueta. Ben presto diverremo il loro principale punto di riferimento, grazie anche all’aiuto del sindaco Green. E quando l’esercito cercherà di sbattere il naso contro le barricate di Eglon, i cittadini imbracceranno le armi che daremo loro e si schiereranno al nostro fianco.»
«Tu sogni…» lo contraddisse Gerald, distaccato.
«Può darsi. Ma, almeno, quando andrò a dormire la prossima volta sarò ancora capace di sognare. Tu, invece, la tua ultima notte l’hai spesa qui dentro ad aspettare la morte.»
«Attento a quel che dici, amico: potresti accorgerti di sbagliare» sussurrò Gerald, e sfruttando la concentrazione di Maschera Blu che cercava di cogliere il senso della sua affermazione impresse tutta la forza sul braccio con cui reggeva la pistola e premette a fondo, sbilanciando l’avversario e facendolo andare a sbattere contro il lato del vagone.
Con un rapido movimento del braccio, Gerald afferrò saldamente la canna della pistola di Maschera Blu e la deviò verso l’esterno, evitando all’ultimo istante uno sparo che lo avrebbe inchiodato a terra. Con un calcio atterrò l’avversario e gli fu sopra, lo disarmò e fece per puntargli nuovamente la pistola in testa, ma un pugno sul fianco lo sbalzò all’indietro.
Maschera Blu si rialzò a fatica e tentò di recuperare la propria arma, ma Gerald fu più veloce e con un piede la fece scivolare tra i binari. Si abbassò sull’avversario e gli assestò un calcio in pieno petto. Poi, visto che l’altro non si muoveva più, corse via e uscì dalla stazione ferroviaria senza che nessuno si prendesse la briga di fermarlo.

«Mi hanno detto che Joey Goode li aveva mandati a pedinare uno dei furgoncini blindati che sarebbero usciti dalla stazione nottetempo. A quanto pare, era stato informato da una donna della loro presenza. Jeff e il vicesceriffo hanno seguito un furgone per tutto il centro della città, mantenendo una distanza di sicurezza e procedendo a fari spenti» narrò Stan, con un filo di voce.
Il vicesceriffo Wieler annuì, incoraggiandolo ad andare avanti. Erano tutti seduti in una delle stanze all’ultimo piano della fabbrica: loro due, Brian, Jeremy e Phil. Gli altri poliziotti stavano improvvisando una colazione disotto, con le poche cose da mangiare che restavano.
«Il pedinamento è andato avanti per una mezz’ora, ha detto Jeff. Da quello che so, Goode non aveva dato loro il permesso di informarci. È stato Jeff a prendere l’iniziativa, di testa sua: è d’accordo con il piano di Goode, ma crede anche nella nostra idea ed è convinto che abbiamo qualche possibilità.
«Si trattava di un carico di batterie. Quattro casse di Duracell Plus, tipo D. Il furgoncino è stato parcheggiato sotto uno dei palazzi nella laterale di Neighbour Street, a pochi passi dalla zona residenziale. Quattro uomini sono scesi e hanno trasportato le casse all’interno dell’edificio, per poi tornare fuori a mani vuote e sparire sul loro furgoncino. Ho l’indirizzo dello stabile: Jeff me l’ha scritto su un pezzetto di carta.»
Seguirono alcuni secondi di silenzio. I presenti si guardarono l’un l’altro, alcuni con aria interrogativa, altri con fare spaesato, tutti in attesa di una sentenza risolutiva che gettasse luce sulla faccenda.
«Perché questa notizia dovrebbe esserci utile?» domandò finalmente il vicesceriffo Wieler, dando voce al dubbio che si era insinuato nella maggior parte di loro.
«Rifletteteci bene…» li invitò Stan, quasi sottovoce. «Stiamo parlando di batterie. Okay? Batterie di un certo tipo, che contengono parecchia energia. Inoltre, parliamo anche di un’operazione segreta, avvenuta nella notte ed eseguita da uomini fidati. Uomini che non avrebbero dovuto lasciarsi pedinare, ma Jeff Turner sa il fatto suo. L’unico uso che mi viene in mente per quattro casse di batterie, signori, è quello di uno strumento che debba essere mantenuto costantemente in funzione. Uno strumento che non possa rimanere sprovvisto di energia. Uno strumento che debba svolgere il suo compito in ogni istante, costi quel che costi…»
«Come ad esempio un jammer» concluse per lui la voce attenta di Jeremy Barton, illuminando gli sguardi degli uomini seduti in cerchio all’interno di quella stanza fredda e umida di una fabbrica abbandonata.

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